un saggio della ferocia del sangue arabo, che non dimenticherò per un pezzo. Improvvisamente, non so per che ragione, si saltarono addosso, si avviticchiarono l’uno all’altro come due tigri, e cominciarono a lacerarsi il viso e il collo a morsi e a unghiate con una furia che metteva orrore. Due uomini robusti, usando di tutta la loro forza, li separarono a stento, già sgocciolanti di sangue, e dovettero trattenerli ancora perchè non tornassero ad avvinghiarsi.
Gli schermitori facevan ridere. Eran quattro, e tiravano di bastone a due a due. Non si può dire la stravaganza e la goffaggine di quella scuola; e la chiamo scuola perchè in altre città del Marocco vidi poi che tiravano nella stessa maniera. Eran mosse da funamboli, salti senza scopo, contorsioni, sgambettate, e colpi annunziati un minuto prima con un gran giro del braccio; ogni cosa fatta con una flemma beata, che avrebbe dato modo a un nostro tiratore di addossare a tutti quattro un prodigioso carico di legnate senza pericolo di toccarne una sola. Gli arabi spettatori, però, stavano là a bocca aperta, e molti di tratto in tratto mi guardavano, come per cercare nei miei occhi l’espressione della meraviglia. Io volli contentarli e finsi un’ammirazione benevola. Allora qualcuno si scansò perchè potessi spingermi un po’ più avanti, ed io mi trovai circondato, stretto da ogni parte dagli arabi, e potei soddisfare il mio desiderio di studiare un po’ quella gente nel suo odore, nei movimenti appena percettibili delle narici, delle labbra e delle palpebre, nei segni della pelle, in tutto ciò che sfugge all’osservatore che passa, e serve nonostante a far capir molte cose. Un soldato della Legazione italiana mi vide da lontano in quella stretta, e credendo che fossi prigioniero involontario, venne a liberarmi, mio malgrado, a suon di gomitate e di pugni.
Il cerchio del contastorie era il più piccolo, ma il più bello. Ci arrivai giusto nel momento in cui, avendo terminato la solita preghiera inaugurale, cominciava il racconto. Era un uomo d’una cinquantina d’anni, quasi nero, con una barba nerissima e due grandi occhi scintillanti, ravvolto, come tutti gli altri raccontatori del Marocco, in un amplissimo panno bianco stretto intorno al capo da una corda di pelo di cammello, che gli dava la maestà d’un sacerdote antico. Parlava a voce alta e lenta, ritto in mezzo al circolo degli uditori, accompagnato sommessamente da due suonatori di chiarina e di tamburo. Raccontava forse una storia d’amore, le avventure d’un bandito famoso, le vicende d’un sultano. Io non ne capivo una parola. Ma il suo gesto era così giusto, la voce così espressiva, il volto così parlante che un barlume del senso, in qualche momento, mi traspariva. Mi parve che raccontasse un lungo viaggio; imitava il passo del cavallo stanco; accennava a orizzonti immensi; cercava intorno a sè una goccia d’acqua, lasciava spenzolare le braccia e la testa come un uomo spossato. Poi, a un tratto, scopriva qualcosa lontano dinanzi a sè, pareva incerto, credeva e non credeva ai suoi occhi,—ci credeva,—si rianimava, affrettava il passo, arrivava, ringraziava il cielo e si buttava in terra tirando un gran respiro e ridendo di piacere all’ombra d’un’oasi deliziosa che non sperava più di trovare. Gli uditori stavano là immobili, senza rifiatare, riflettendo coll’espressione del viso tutte le parole dell’oratore; e così com’erano in quel punto, con tutta l’anima negli occhi, lasciavano vedere chiaramente l’ingenuità e la freschezza di sentimento, che celano sotto l’apparenza d’una durezza selvaggia. Il contastorie andava a destra e a sinistra, s’avventava, retrocedeva atterrito, si copriva il viso colle mani, alzava le braccia al cielo, e via via che s’infervorava e levava la voce, i suonatori soffiavano e picchiavano con maggior furia, gli ascoltatori gli si stringevano intorno più ansiosi, finchè il racconto finì in un grido tonante, gli strumenti saltarono per aria e la folla commossa si disperse per cedere il posto ad un altro uditorio.
Tre suonatori tenevano intorno a sè un altro cerchio più grande di tutti gli altri. Le figure, i movimenti e la musica di costoro mi fecero una singolare impressione. Erano tutti e tre strambi, di statura altissima e curvi dai piedi alla testa come le figurine grottesche che rappresentano la ci maiuscola nei titoli di certi giornali illustrati. Uno sonava il piffero, l’altro un tamburello a sonagli, il terzo uno strumento stravagante, una specie di clarinetto, mi parve, combinato, non so come, con due corni da caccia divergenti, che mandavano un suono non mai sentito. Questi tre sonatori, ravvolti in pochi cenci, stavano stretti l’un all’altro, di fianco, come se fossero legati, e sonando continuamente e disperatamente il medesimo motivo, l’unico forse che sonavano da cinquant’anni, facevano il giro dell’arena. Io non so dire come si movessero. Era un non so che tra l’andatura e il ballo, certi scatti come della gallina che becca, certi stringimenti di spalle, fatti da tutti e tre con una simultaneità macchinale, e così lontani da una qualunque somiglianza coi movimenti nostri, così nuovi, così bizzarri, che più li osservavo, e più mi davan da pensare, come se esprimessero una idea, o avessero la loro ragione in qualche proprietà caratteristica del popolo arabo, e ci penso ancora sovente. Quei disgraziati, grondanti di sudore, sonavano e ballonzolavano da più di un’ora, con una serietà inalterabile, e qualche centinaio di persone li stavano a sentire, pigiate e immobili, col sole negli occhi, senza dar segno nè di piacere nè di noia.
Il circolo dove si faceva più strepito era quello dei soldati. Erano dodici, tra giovani e vecchi, alcuni col caffettano bianco, altri colla sola camicia, questo col fez, quello col cappuccio, armati di fucili a pietra focaia, lunghi come lancie, nei quali introducevan la polvere sciolta, come fanno tutti i soldati nel Marocco, dove non s’usano cartuccie. Un graduato, vecchio, dirigeva lo spettacolo. Si mettevan sei da una parte e sei dall’altra, di faccia. A un segnale, cangiavano vicendevolmente di posto, correndo, e appoggiavano un ginocchio a terra. Allora uno di essi cantava non so che cosa, con un’acutissima voce in falsetto, tutt’a trilli e a gorgheggi, che durava parecchi minuti, ascoltato con un silenzio profondo. Poi, a un tratto, balzavano tutti in piedi, in circolo, e spiccando un altissimo salto, gettando un grido di gioia, rovesciavano il fucile e sparavano contro terra. Non si può immaginare la rapidità, la furia, e quello che aveva di pazzamente festoso e di diabolicamente simpatico quella ridda tonante e lampeggiante, intraveduta in mezzo a un nuvolo di polvere saettato dal sole. Fra gli spettatori, a pochi passi da me, v’era un’arabina di dieci o dodici anni, non ancora velata, uno dei più bei visetti ch’io abbia visto a Tangeri, d’un bruno pallido delicatissimo, la quale contemplava coi suoi begli occhioni celesti pieni di stupore uno spettacolo assai più meraviglioso per lei che la danza dei soldati: quello che le offrivo io levandomi i guanti; questa seconda pelle delle mani, come dicono i ragazzi arabi, che i cristiani si mettono e si tolgono a loro piacere, senza risentirne il menomo dolore.
Esitai se dovessi andare o no a vedere l’incantatore dei serpenti; ma la curiosità vinse il ribrezzo. Questi così detti incantatori appartengono alla confraternita degli Aissaua e dicono di ricevere dal loro patrono Ben-Aïssa il privilegio di poter sfidare senza pericolo la morsicatura di qualunque animale più velenoso. Molti viaggiatori, infatti, degni di pienissima fede, assicurano d’aver visto parecchi di costoro farsi morsicare a sangue, senz’effetto venefico, da serpenti di cui un momento dopo venne esperimentato il veleno potentissimo sopra altri animali; e dicono di non essere riusciti a scoprire di che mezzo si valessero quei destri ciarlatani per rendere innocua la morsicatura. L’Aissaua che io vidi, dava uno spettacolo orribile, ma incruento. Era un arabo piccolo, tarchiato, col viso smorto, una faccia di giustiziere, chiomato come un re merovingio e vestito d’una specie di camicia azzurrina che gli scendeva fino ai piedi. Quando m’avvicinai, saltellava grottescamente intorno a una pelle di capra distesa in terra, dalla quale usciva la bocca d’un sacco, dov’erano chiusi i serpenti; e saltellando cantava, accompagnato da un flauto, una canzone di motivo malinconico, che doveva essere una invocazione al suo Santo. Finito il canto, chiacchierò e gesticolò lungo tempo per farsi buttar dei denari, poi s’inginocchiò davanti alla pelle di capra, ficcò la mano nel sacco, ne tirò fuori, con molti riguardi, un lungo serpente verdognolo, pieno di vita, e lo portò in giro sotto gli occhi degli spettatori. Poi cominciò a maneggiarlo in tutti i modi, come se fosse stato un pezzo di corda. Lo afferrò per il collo, lo tenne sospeso per la coda, se lo attorcigliò intorno alla fronte, se lo nascose nel petto, lo fece passare per i fori del cerchio di un tamburello, lo buttò in terra, lo trattenne col piede, se lo strinse sotto un’ascella. L’orribile bestia rizzava la testa schiacciata, dardeggiava la lingua, si scontorceva con quei suoi movimenti flessuosi, odiosi, abbietti, che sembrano l’espressione d’una vigliacca perfidia; e schizzava dagli occhi piccolissimi tutta la rabbia che gli fremeva nel corpo; ma non m’accorsi che mordesse mai la mano