E il Duca, con un suono che parve lene sussurre di acque, rispose:
—Io amo.
E il Conte, per dargli spirito, giocondamente soggiunse:
—È la vostra stagione, figliuolo mio; e fate ottimamente ad amare con tutta l'anima, ed anche con tutto il corpo: e se non amate voi, giovane e bello, o chi dovrebbe amare? Forse io? Vedete, gli anni mi piovono neve sopra i capelli, e mi stringono il cuore di ghiaccio. A voi parlano di amore e cielo e terra; a voi da tutta la Natura sorge una voce, che vi consiglia ad amare:
Le acque parlan d'amore, e l'ôra, e i rami, E gli augelletti, e i pesci, e i fiori, e l'erba Tutti insieme pregando ch'io sempre ami;
cantava quel dolcissimo labbro di messer Francesco Petrarca. Su, via, giovanetto, ella è cosa da vergognarsi questa? Predicatela dai pulpiti, banditela di sopra i tetti; chè buona novella è amore. Non si vergognava già confessare il Petrarca, che pure fu uomo grave e canonico, come amore lo avesse tenuto anni ventuno ardendo per madonna Laura mentre era in vita, e più dieci dopo che la si volava al cielo[1]. Misericordia! Amori erano quelli da disgradarne le querce. Nè per avere insegnato l'amore suo in mille rime si chiamava sazio, chè sul declinare degli anni desiderò averle fatte dal sospirar suo prima:
In numero più spesse, in stil più rare[2].
A santa Teresa, vedete, fu perdonato molto perchè aveva molto amato; e vi ha chi dice anche troppo. La stessa santa chiamava infelicissimo il diavolo; e sapete perchè? perchè non poteva amare. Amate dunque totis viribus; chè altramente operando offendereste la Natura, la quale è, come sapete, figliuola primogenita di Dio.
Il giovanetto, turandosi il volto con ambe le mani, e tratto un altro lungo sospiro, esclamò:
—Ah! disperato è l'amor mio…
—Non dite questo, che senza speranza non sono neppure le porte dello inferno. Ragioniamo. Vi sareste per avventura invaghito della donna altrui? Avvertite, che allora incontreremmo uno inciampo; anzi due; il marito prima, e poi il Decalogo. E' pare che quando Dio promulgò la sua legge sul Sinai, si sentisse forte corrucciato contro la sua figliuola Natura; però che, a dirla fra noi, nè più nè peggio potevano contrariarsi gli appetiti di lei. Non pertanto confortatevi di questo: che quanto il Decalogo proibisce il cuore permette.
—Oh! no, signor Conte, il mio è diritto amore.
—E allora sposatela in facie Ecclesiæ, per filo e per segno, secondo il sacrosanctum Concilium Tridentinum, e non mi venite…
—Dio sa se io lo farei; ma, ahimè! un tanto bene mi è tolto.
—E allora non la sposate.
—La donna, che amo, trasse troppo più che io non vorrei umilissimi i natali; ma se si consideri il portento delle forme leggiadre, o piuttosto l'altezza dell'animo, ella è in tutto meritevole d'impero…
—Alma real degnissima d'impero, lo ha detto anche messer Francesco Petrarca; e se così è, e voi sposatela.
—Freddo cenere ed ombra, durerà in me questo amore eternamente.
—Di quanto tempo comporrete voi questa eternità? Nelle donne, secondo i computi più accurati, la eternità di amore dura una settimana intera: in alcune, ma rare, si prolunga anche un poco al secondo lunedì, e basta.
Il giovane, tanto era sprofondato in cotesto suo amore, che accorgendosi allora del modo beffardo col quale gli favellava don Francesco, diventato in volto vermiglio per vergogna e per dispetto, rispose:
—Signore, voi mi fate torto; sperava trovar consiglio;—mi sono ingannato—scusate;—e fece atto di andarsene. Ma il Conte ritenendolo, dolcemente favellò:
—Piacciavi rimanere, Duca; io vi ho parlato così per provarvi: ora troppo bene mi accorgo, che vi accende passione veemente davvero, e per avventura fatale. Versate il vostro animo nel mio; saprò compassionarvi, e, potendo, ancora sovvenirvi. Io ho sepolto i miei amori; sessanta e più anni gli associarono alla fossa, e cantarono loro il miserere: per me amore è memoria, per voi speranza; per me cenere, per voi rosa che sboccia; ma non pertanto ravviso nel mio cuore i segni della fiamma antica, e ragionando meco, bene potete ripetere i versi del Petrarca:
Ove sia chi per prova intenda amore, Spero trovar pietà, non che perdono:
Non ignara mali miseris succurrere disco; come disse Didone ad Enea, venuto da Troia a fondare Roma per la maggior gloria dei papi in generale, e di Clemente VIII in particolare.
Il Conte Cènci, malgrado la protesta, dileggiava; ma sarebbe stato difficile indovinare s'ei favellasse da senno o da burla, impercíocchè apparisse composto a gravità: solo stringeva gli occhi, e la pelle reticolata gli si aggrinzava dintorno come una nassa da pescare: le palpebre lungamente tremolavano: egli rideva con le pupille il riso della vipera.
—La fanciulla, che io amo, dimora in casa Falconieri. Quale per lo appunto sia il suo lignaggio io non saprei; ma comecchè la tengano in parte di congiunta dilettissima, pure appartiene a condizione servile.—Ahimè! Quando prima la vidi al Gesù, ornata di onestà e di leggiadria, io ne persi il sonno: ogni altra donna mi parve sozza e vile.
—Deh! parlate basso, Duca; guai a voi se le nostre superbe dame romane vi ascoltassero. Farebbero di voi una seconda edizione di Orfeo messo in pezzi dalle Baccanti, con note e appendici.
—Reputandolo facile amore, continuava il giovane infervorato, (e Dio sa se me ne prende rimorso) non trascurai veruno dei partiti che soglionsi usare per venire a capo degli amorosi desiderii. Me misero! Che queste male pratiche le devono di certo avere persuaso fastidio, e forse aborrimento di me.—Ella, chi sa, adesso mi odia;—e si fermava per timore di singhiozzare; poi con voce sommessa proseguiva: come mai devono aver suonato le vituperose proposte all'orecchio della castissima donzella?
E il Conte, riguardandolo attonito, pensava: più nuovo pesce di costui non vidi al mondo.
—I Falconieri, proseguiva il Duca, mi hanno fatto ammonire che io smetta dalla usanza di passare sotto il palazzo, però che la fanciulla non sia tale che io la debba condurre in moglie, nè quale ella possa consentire a diventarmi amica.
—E voi allora?
—Io scelsi il partito di chiederla in isposa…
—Non ci è rimedio: io avrei fatto come voi.
—Il mio parentado, appena venne avvertito del mio proponimento infuriò contro me, quasi fossi per commettere qualche gran sacrilegio; e chi mi chiamò a considerare la ingiuria del sangue, e chi la nobiltà della casa offuscata; taluno lo sdegno dei congiunti, tale altro la rabbia dei colleghi; sicchè con mille diavolerie mi hanno sconvolto il cervello in modo, che poco mancò che io non mi sia dato per perduto.
—Eh! la è faccenda seria; ed io avrei detto come loro….
—Ma quando Adamo zappava ed Eva filava dov'erano i gentiluomini?[3]
—Veramente; dov'erano? Io per me non lo so.
—Io vorrei che mi chiarissero in che cosa, noi gentiluomini, differiamo dai popolani. Forse noi non bagna la pioggia, o non riscalda il sole? Forse non ci toccano i dolori; la nostra culla non è circondata di pianto; il nostro letto di morte non è assediato dai singulti? Possiamo dire alla morte, come al creditore importuno, tornate domani? Dormiamo meglio l'ultimo sonno dentro un sepolcro di marmo, che il popolo sotto la terra? Io vorrei che mi chiarissero un po' se i vermi, prima di accostarsi a rodere il cadavere di un papa o di un imperatore, gli fanno di berretta dicendogli: si contenta, santità? si contenta, maestà? Il mio ducato semina, e raccoglie contentezze? Amore non toglie via ogni differenza fra gli amanti?
—Cosi è: Ogni disuguaglianza amor fa pari, dice il poeta. Qualche cosa di simile cantò con la solita eleganza il signor Torquato Tasso, nella sua favola boschereccia: ricordatevene Duca?
—Oh Dio! e che cosa