Emilio Salgari

I Robinson italiani


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      — No, contro uno solo, ma se tu l'avessi veduto, ragazzo mio, non avresti più una goccia di sangue in corpo. Che braccia!... E che occhi!... Se mi stringeva un po' di più, mi faceva uscire gl'intestini dalla bocca, te lo assicuro.

      — Un polipo formidabile, adunque?...

      — Enorme.

      — E l'avete ucciso?

      — Lo credo.

      — E stava in quella grotta come nella sua casa?

      — Precisamente, Piccolo Tonno.

      — Ah!... San Gennaro, aiutami!...

      — Cosa c'è?...

      — Oh! l'orribile mostro!...

      — Fulmini!... Ancora lui!... Signor Emilio! —

      Albani, che aveva allora terminato di lavarsi, guadagnò prontamente la riva, ma subito si arrestò.

      Dalla caverna marina, usciva in quel momento il mostro che li aveva poco prima assaliti, tentando di tornare in mare.

      Quel calamaro gigante faceva paura. Era di dimensioni enormi, poichè poteva pesare mille chilogrammi, biancastro ma quasi gelatinoso, con delle braccia lunghe sei metri, fornite d'un grande numero di ventose destinate a succhiare il sangue delle vittime, con un becco grandissimo, di sostanza cornea, che somigliava, nella forma, a quello dei pappagalli e con due occhi grandi, piatti, dai glauchi colori.

      S'avanzava penosamente, essendogli state recise tre braccia e cercava di approfittare delle onde che la risacca scagliava contro la caverna.

      — Fuggite! — gridò il signor Emilio.

      Sul fianco destro della caverna si prolungava una fila di scoglietti, gli uni collegati agli altri da banchi di sabbie che la bassa marea aveva lasciati scoperti, e che si univano ai piedi dell'altra sponda.

      I naufraghi senza più esitare si slanciarono verso quegli scogli, cercando di giungere presso la riva e si arrestarono dinanzi ad una rupe gigantesca che s'inalzava per due o trecento piedi.

      Il calamaro gigante, fortunatamente, pareva che non pensasse a dare a loro una seconda battaglia, ma a raggiungere il mare. Attese che una nuova onda giungesse presso la caverna e quando la vide ritirarsi, si lasciò trascinare via.

      Per qualche istante furono vedute le sue braccia agitarsi fra la spuma, poi l'intera massa scomparve sotto le acque.

      — Buon viaggio! — gridò il marinaio, respirando liberamente. — Fulmini!... Come era brutto!... Non ne ho mai visto uno simile!...

      — I cefalopodi sono piuttosto rari, — disse Albani.

      — Si chiamano cefalopodi, quei mostri?...

      — Sì, Enrico.

      — Sono pericolosi?...

      — Posseggono tale forza nelle loro braccia, da stritolare un uomo robustissimo. Aggiungi poi, che le loro ventose dove si applicano succhiano il sangue, e se tu non fosti stato vestito, le avresti provate.

      — Ma il furfante morrà, così mutilato.

      — Non crederlo, amico mio. I cefalopodi hanno la vita dura e per ucciderli bisogna colpirli al cuore o meglio nei cuori, poichè ne hanno tre.

      — Ma ha perduto tre braccia, signore.

      Il signor Albani spaccò un frutto, adoperando la scure per non ferirsi le mani.... (Pag. 37).

      — Col tempo le rifarà.

      — Cosa dite?... Torneranno a crescergli le braccia?...

      — Sì, fra sette anni. Ma lasciamo andare il cefalopodo e cerchiamo di scalare questa costa. Vedo degli alberi lassù e promettono delle frutta, se non m'inganno.

      — Siamo marinai signore e spero che ci riusciremo. —

      Il sole spuntava allora, illuminando il mare e l'isola. Alzando gli occhi verso l'alta sponda, i naufraghi ormai distinguevano perfettamente degli alberi di mole enorme, coperti di folte e grandi foglie, in mezzo alle quali apparivano delle grosse frutta spinose, di forma un po' allungata.

      — Se non m'inganno sono durion, — disse il signor Emilio. — Sarà un po' difficile far cadere quelle frutta, ma chissà che a terra ve ne siano. —

      Si misero a osservare la rupe, ma alla base era così liscia, da non permettere la salita nemmeno ad un gatto o ad una scimmia. Quattro metri più sopra però vi erano numerosi crepacci e delle radici e degli sterpi, i quali potevano offrire una scalata.

      — Corpo d'un tre alberi sventrato! — esclamava il marinaio, che si rompeva inutilmente le unghie contro quella parete liscia e dura. — Che non si possa giungere lassù?

      — Colla pazienza ci riusciremo, — disse il signor Emilio. — Dov'è il rottame?

      — Si è arenato presso la caverna, — rispose il mozzo.

      — Va' a tagliare un paterazzo dell'albero. —

      Il mozzo si recò presso la caverna e poco dopo ritornava tirando la lunga e grossa gomena incatramata.

      — Formiamo ora una scala umana, — disse il veneziano. — Tu, Enrico, appoggiati alla rupe, io salgo sulle tue spalle e Piccolo Tonno sulle mie, portando con lui il paterazzo.

      — Sarai poi capace di salire? — chiese il marinaio al mozzo.

      — Mi basta cacciare un piede ed una mano in una di quelle fessure, — rispose Piccolo Tonno.

      — Avanti allora! —

      Il marinaio s'appoggiò alla rupe inarcando il robusto dorso, il signor Emilio gli salì sulle spalle con un solo salto, poi il mozzo, che si era legata la fune attorno ai fianchi, s'arrampicò con un'agilità da scoiattolo, aggrappandosi ad una radice e puntando i piedi nudi entro un crepaccio.

      — Ci sei? — chiese il marinaio.

      — Salgo, — rispose il ragazzo.

      Il signor Emilio balzò a terra e guardò in aria. Piccolo Tonno s'arrampicava sul fianco della rupe con rapidità sorprendente e con sicurezza, tenendosi stretto agli sterpi o alle radici ed approfittando delle più lievi sporgenze e delle più piccole fessure.

      In pochi istanti raggiunse felicemente la vetta della grande rupe, la quale si addossava alla spiaggia.

      — Cosa vedi? — chiese il marinaio, impaziente.

      — Tanti alberi e delle canne immense.

      — Vi sono delle capanne? — chiese il signor Emilio.

      — Non ne vedo.

      — Lega la fune, poi gettala.

      — Signor Albani!...

      — Cosa c'è ancora?...

      — Vedo delle scimmie.

      — Non valgono il giupin[1] ma allo spiedo basteranno pei nostri stomachi affamati, — disse il marinaio. — Giù la fune, ragazzo mio!... —

      Il mozzo legò un capo del paterazzo attorno la punta d'una roccia e gettò l'altro, il quale cadde in acqua.

      — A voi, signore, — disse Enrico.

      Albani afferrò la fune e si mise a salire con una lestezza, che dimostrava come quell'uomo fosse famigliarizzato cogli esercizi ginnastici, e raggiunse il mozzo il quale ammirava estatico alcuni uccelli dalle penne splendidissime, che volteggiavano attorno agli alberi.

      Quella parte dell'isola, le cui sponde erano così elevate, pareva che fosse assai accidentata e che formasse le ultime pendici della montagna già scorta, la quale s'alzava a meno di un miglio dal mare.

      Quel