proseguì fino al secondo ingresso, vigilato da due enormi tori dall'aspetto umano. Cessarono i canti ed i suoni ad un tratto e sul limitare comparvero i sacerdoti de' sommi Iddii protettori di Babilonia. Alle vesti d'oro si conoscevano i sacerdoti di Sam, il dio sole, a quelle d'argento i ministri di Sin, che è il dio luna. Vestiano di nero i sacerdoti di Ninip, di aranciato i sacerdoti di Merodac, scarlatto i seguaci di Nergal, bianco quei di Militta, azzurro i dedicati al culto di Nebo. Di pietre preziose apparìano tempestate le tuniche e le tiare dei venerandi; frangie d'oro ne ornavano gli orli, e ghiande di smeraldo pendevano dai lembi.
— Gli Dei ti proteggano, o re d'Armenia; — gli disse il gran sacerdote, levando le mani in atto di benedirlo.
— Insegni a te la prosperità di questa reggia come soltanto dal patrocinio degli Dei gli uomini derivino ogni loro fortuna. Soltanto mercè l'aiuto celeste i re salgono in fama per le loro virtù, camminano nelle vie della giustizia e si raffermano nella santità, che li fa degni, dopo morte, degli onori divini. —
Ara chinò gravemente il capo e rispose:
— Tu parli il vero, o santissimo. Un re a cui venga meno il soccorso celeste, vaga nelle tenebre a guisa di cieco. Gli abitatori del firmamento azzurro, comunque nomati tra le genti vostre e le mie, assistano sempre il popolo delle quattro favelle! —
Ciò detto, spinse il cavallo sul limitare e, seguito dal venerando stuolo, penetrò nel terzo recinto, donde si ascendeva all'ultima spianata della regia piramide, innanzi al palazzo della grande signora di Babilonia.
Lassù lo aspettava una scena più meravigliosa a gran pezza. Davanti a lui si stendeva una piattaforma, lunga cinque stadi e larga per modo che dieci cavalli vi si potevano muover di fronte, senza occuparne i margini di pietra, l'uno dei quali correva lunghesso il parapetto, ornato a giuste distanze di figure simboliche, e l'altro circondava, come una fascia di candido lino, il magnifico peristilio del palazzo, formato da colonne di palma, che sorreggeano capitelli di granito, stranamente foggiati a chimere, sirene, ed altre creazioni fantastiche. La piattaforma era vuota, in attesa degli ospiti, che dovevano schierarvisi in bella ordinanza; per contro, l'intercolonnio appariva folto di gente, tra cui erano primi i trecento portatori di scettro, ministri dei regali voleri, splendidi a vedersi per le lunghe vesti di porpora e d'oro e per le ricche tiare che stringean loro le chiome inanellate e lucenti. Infine, sul peristilio, per quanto era lungo, si scorgeva un terrazzo, chiuso da una balaustrata di mattoni dipinti a smalto, e sormontato nel mezzo da un padiglione, o velario, partito a liste di varii colori, sotto il quale, circondata dalle sue ancelle, stavasi la regina ad attender l'arrivo del suo tributario d'Armenia.
Il gran maggiordomo, che veniva innanzi, tenendo per mano le redini del palafreno di Ara, annunziò al cavaliere la presenza della regina. E il principe allora si fermò in mezzo alla piattaforma; alzò gli occhi al terrazzo, mettendosi una mano sul petto; indi si tolse la benda di perle dal capo, trasse la spada dal fodero, e depose queste insegne del suo potere tra le mani del gran maggiordomo, il quale fu sollecito a raccoglierle e sollevarle con palme tese verso la regina, che dall'alto sorrise e con lo scettro accennò cortesemente di gradire l'omaggio.
A quel cenno squillarono da capo le trombe e risuonarono i timballi percossi. Il re d'Armenia scese d'arcione, per avviarsi all'ingresso; intanto i suoi cavalieri e le salmerie sfilavano sulla piattaforma, sotto gli occhi della regina.
Portavano queste salmerie i donativi del re alla grande signora di Babilonia; massi di rame naturale cavati nelle montagne di Armenia; pezzi di lapislazzoli tratti di Atropatene, a levante del lago di Van; tappeti di finissima lana intessuti a varii colori nelle lunghe veglie invernali dalle donne di Peznuni; cavalli piccoli e forti, velocissimi al corso, cresciuti nelle mandrie regali di Armavir. E in quella che il gran tesoriere disaminava i ricchi presenti, e gli eunuchi aritmetici veniano con canne temperate annotando ogni capo su rotoli di papiro, i servi della reggia conducevano i seguaci del re d'Armenia alle stanze loro assegnate per alcune ore di riposo, innanzi che facessero ritorno ai loro alloggiamenti fuori il baluardo della città.
Guidato dal gran maggiordomo, seguito dai sacerdoti e dai portatori di scettro, il giovine Ara entrò nei vestibolo, dove gli fu data l'acqua ospitale alle mani, insieme con soavi profumi e ristoro di grate bevande, che adolescenti biancovestiti versavano dalle idrie capaci. Quindi ad un cenno recato dagli eunuchi, il re d'Armenia fu introdotto nella sala di Nemrod, a cui si ascendeva per un'ampia gradinata, in mezzo a due file di tori giganteschi, emblemi della possanza divina, le cui vaste ali erano dipinte di azzurro, la tiara di rosso, le corna e l'ugne dorate, laddove il volto, che figura l'umano, aveva il color delle carni e gli occhi appariano di persona viva, attraverso la vitrea scorza di smalto.
La sala, detta di Nemrod dalle imprese di quei re, che vi erano narrate in caratteri cuneiformi ed espresse in bassirilievi lunghesso le pareti, era di sterminata grandezza. Le mura, qua e là rinfiancate da enormi pilastri foggiati a colonne, misuravano ottanti cubiti e più, dallo zoccolo di marmo colorato insino al fregio dell'architrave, donde si partiano i correnti del sopracielo, condotto in legno di odoroso cipresso, sfarzosamente dorato e aperto nel mezzo alla luce del giorno, che scendea temperata da un velario di porpora.
Tra le colonne messe ad oro, con scanalature dipinte di rosso, erano vaste quadrature, ognuna delle quali divisa orizzontalmente in due parti; la superiore rivestita di mattoni lucenti, i cui rotti disegni concorrevano a formare in ogni intercolonnio l'imagine della divinità suprema, ch'era un cerchio con entro una figura d'uomo alato, il quale stringeva nella manca lo scettro e teneva la destra alzata nell'atto dello insegnamento; l'inferiore, poi, coperta di tavole d'alabastro, raffermate al muro da ramponi di rame, sulle quali erano scolpite scene di guerra e di caccia.
Vedevasi in una di queste il fortissimo Nemrod, potente cacciatore al cospetto di Ilu, correr sull'orma di un leone, piagato dalle sue freccie. Su d'un'altra era incisa la torre delle sette sfere celesti, lasciata a mezzo per la confusione delle lingue. Altrove il gran re presiedeva alla fondazione di Erech; più oltre si vedeva nel suo cocchio di guerra, con l'arco teso in pugno, nell'atto di scacciare Assur, figlio di Sem, dalla terra di Sennaar.
Seguivano le imprese di altri re della stirpe cussita, da Bel, figliuolo di Nemrod, infino allo sposo di Semiramide, il felicissimo Nino, che si vedeva raffigurato in più tavole, giusta il numero delle sue vittorie. In una di quelle sculture, il gran monarca era effigiato sul suo trono d'argento, con la tiara ricinta dal regio diadema, la veste bianca frangiata d'oro e due servi da tergo, l'uno de' quali in atto di agitare il flagello, emblema del suo assoluto potere, l'altro con le armi del re tra le mani, mentre davanti al trono passavano lunghe file di vinti, coi polsi legati dietro le spalle. Più oltre si vedeva l'assedio d'una città fluviatile. Gli assedianti spingevano torri di legno, cariche d'armati, contro le mura, dall'alto delle quali il popolo assediato si difendeva gagliardamente scagliando freccie e bitume infuocato. Da un altro lato della città, le donne fuggivano su carri tirati da buoi, ed uomini paurosi si gittavano a nuoto, aggrappandosi ad otri gonfiati, giusta il costume dei luoghi.
Di contro ad uno di questi scompartimenti della sala, ergevasi il trono di Semiramide, alta e splendida mole d'argento e d'oro, sormontata da un padiglione di bisso e sorretta da figure di popoli vinti, alla quale si ascendeva per parecchi gradini, coperti da un sontuoso tappeto. Il cerchio e la immagine alata, simbolo della divinità, splendevano per aurei riflessi e per vivezza di smalto sopra lo scanno della regina, e intorno a questo, distribuiti sui gradini dei trono, stavano immobili ed ossequiosi i flabelliferi, con alti ventagli di penne di pavone, i melofori, con le armi in pugno, significanti la virtù guerriera di Semiramide, e i portatori di scettro, interpreti e ministri de' suoi cenni regali. Seguivano le nobili compagne della regina, sfoggiatamente vestite: indi tutti gli altri uffiziali di corte digradanti man mano, tanto erano essi numerosi, lungo le pareti della sala. Tutt'intorno, poi, guerrieri sfavillanti nell'armi, suonatrici d'arpa e di cetra, musicisti in buon dato, ancelle e schiavi, diversi di nazione e di foggie.
Semiramide, bella come il sole nascente, sfolgorava dall'alto. La copriva dalla radice del collo insino alle piante una tunica di bisso, tinta in violetto di porpora marina e partita in mezzo da una larga striscia bianca, intessuta di ricami d'oro e di gemme. Una sopravveste, simile al peplo argivo, scendeva in molli pieghe dal colmo seno, rattenuta da un'aurea cintura e coperta a mezzo da una gorgiera a sette filze