d'ogni più piccola cosa; e lo tratteggiò, lo colorì, lo sballottò per mezz'ora fra le sue piccole dita affusolate di romanziere parigino, rifacendo la sua voce stentorea e la sua mimica grandiosa, in una maniera da mandarsi male dal ridere. I frizzi, i paragoni comici, le osservazioni argute e inattese gli venivan via l'una sull'altra, affollate e annodate, che non c'era tempo di goderle tutte: pareva di sentir parlare a una voce cinque parigini dei più lepidi e dei più facondi. E raccontando certe avventure del suo personaggio, col quale è legato, lasciava indovinare a traverso alla vita del collega qualche tratto della vita propria, della sua bella vita varia e agitata di scrittore parigino: le cene tumultuose con gli amici celebri; il festino interrotto alle tre della mattina per andar a correggere le stampe al giornale; le lunghe dispute letterarie cento volte interrotte e riattaccate, a notte tarda, per le vie solitarie di Parigi; le grandi espansioni allegre dopo i grandi lavori gloriosi; qualche leggiero abuso di Champagne, una volta tanto, per concedere qualche cosa alla mattìa giovanile, non ancor tutta domata dalle fatiche austere dell'arte; e le baldorie improvvisate in casa del De Nittis, dove qualche volta l'autore del Nabab, a cavallo al pittore napoletano, con una stecca da bigliardo in resta, ha fatto il picador andaluso, tra gli applausi degli amici e le risa delle signore, in mezzo al disordine sfarzoso dello studio, pieno di capolavori in gestazione.
Udendo parlare della diffusione dei suoi romanzi in Italia, domandò vivamente: — Davvero? — e mostrò quasi d'esserne meravigliato.
Legge l'italiano, ma non lo parla. Quel poco che sa della nostra lingua lo imparò abitando per qualche tempo con certi italiani, nessuno immaginerebbe mai dove.... dentro a un faro. Non disse di più: mi immagino che sia stato un capriccio alla Byron. Ma già tutta la sua prima gioventù, da quanto ne accennò vagamente, dev'essere stata delle più avventurose. Una parte ne raccontò nella sua Histoire d'un enfant, in quella carissima autobiografia, che par scritta dall'autore del Copperfield, con più sveltezza, e con non minore sentimento. È nato anche lui, come il suo petit chose, in una di quelle città della Linguadoca «nelle quali, come in tutte le città del mezzogiorno, si trova molto sole, un gran polverìo, un convento di Carmelitane e qualche monumento romano.» Figliuolo d'un povero negoziante, rimase giovanissimo sul lastrico. Ancora adolescente, entrò istitutore in un piccolo collegio per guadagnare da vivere, e andò a cercar fortuna a Parigi, dove per un pezzo stentò il pane, e forse patì la fame, facendo i primi versi al freddo, e passando per la trafila dei primi amori. Quell'angelo di fratello, che fa da madre a petit chose, dev'essere uno dei suoi fratelli, perchè quei personaggi lì non s'inventano, o non si rendono, se son di fantasia, con quella freschezza incantevole di colori, anche avendo l'ingegno di due Daudet. Ma poi si riconosce a ogni passo, nel protagonista di quella storia gentile, la bella natura di artista e di buon figliuolo del futuro autore dei Contes du lundi; e non solo la sua natura, ma la sua persona. Già adulto, pareva ancora un ragazzo, tanto le sue forme erano delicate e quasi femminee. Era il ritratto di sua madre. La sua testa «piena di carattere,» come gli diceva Irma Borel la avventuriera, poteva servir di modello per un bel pifferaro italiano o un grazioso algerino mercante di violette. Irma se lo porta via e la signorina Pierrotte se ne incapriccia appena lo vede; e il suo buon fratello Giacomo, geloso della signorina, glielo dice qualche volta con tristezza: — Ah! tu sei fortunato. A tutti piaci, tutti ti vogliono bene: è ben naturale che finisca con amarti anche lei! — Povero petit chose, povero Daudet di diciassette anni, costretto a fare i conti centesimo per centesimo; a campar degli avanzi della tavola d'un marchese, che gli porta di soppiatto suo fratello; a strapparsi il pane dalla bocca per comprarsi la candela da poter lavorare la notte! Poveri romanzieri, fanciulli di genio, che ci rallegrano e ci consolano, che ci strappano dal cuore le buone lacrime e il riso salutare, che entrano nella nostra vita e ci fanno vivere con loro, e diventano nostri amici e nostri fratelli, — poveri romanzieri celebrati e festeggiati, — che lacrime di sangue hanno pianto prima che il loro nome arrivasse sino a noi, quanto pan duro hanno ingoiato prima di cenare dal Brébant, e quante soffitte hanno riempite delle loro angoscie prima di possedere quei tappeti, su cui noi passiamo adesso in punta di piedi, rispettosamente, venuti di duecento miglia lontano, per vederli nel viso!
Mentre continuava a discorrere riaccendendo di tanto in tanto quella benedetta pipuccola, che mi rubò almeno mille parole, altre persone venivano annunziate, fra le quali pensai che ci fosse qualche seccatore, vedendo passare sulla sua fronte, all'annunzio dei nomi, una leggiera comicissima espressione di terrore. Ma riceveva tutti con la stessa bonarietà franca e festosa, riempiendo la stanza del suo bel riso fresco di studente. E si vedeva che anche i suoi amici intimi lo stavano a sentire con grande piacere. Era in vena. — Non si direbbe che parla — mi disse uno — ma che suona. Questo mi ricordò un appunto che gli fanno certi critici: dicono che il suo stile è lo stile di uno che recita. Ma l'occhio dell'osservatore più acuto e più malevolo non scoprirebbe nel suo parlare e nei suoi atteggiamenti nè un accento nè l'ombra d'un gesto che potesse dar sospetto d'artifizio. Era bello a vedere, sopra tutto, nei passaggi improvvisi da un discorso faceto a uno grave. Quando la sua ilarità sonora era attraversata da un pensiero sull'arte o da un ricordo triste, pareva che con lo stesso atto nervoso della mano cacciasse indietro i capelli e cancellasse il sorriso dalla fronte; e allora appariva aperto, immobile e puro il suo volto pallido di Nazareno, così pieno di pensiero, che faceva cessar subito il riso intorno a sè, e s'indovinavano le sue parole prima di sentir la sua voce.
Così fece quando qualcuno dei presenti nominò Giacomo Leopardi, ch'egli aveva letto per la prima volta in quei giorni. I francesi che intendono un po' d'italiano, leggendo il Leopardi, trovano quasi sempre un intoppo alle prime pagine, e non vanno più oltre, spaventati dalle difficoltà che presentano le allusioni mitologiche e la forma un po' tormentata e velata di certe canzoni. Rimangono quindi con l'immagine dimezzata d'un Leopardi politico, erudito ed astruso, ignorando affatto il poeta appassionato e limpido delle liriche seguenti, che è il vero e grande Leopardi. Il Daudet andò fino in fondo, e mi fece piacere e meraviglia il sentire come l'ha capito profondamente, anche a traverso alla traduzione. Ma è ridicolo il dir meraviglia, poichè dovrebbe meravigliare il contrario, in un artista come il Daudet. Uno dei suoi amici non aveva del Leopardi un concetto giusto. Egli lo definì da par suo. — No, sapete — disse; — sbaglia, a parer mio, chi rimpiccolisce la sua poesia attribuendola a «mal di stomaco.» Non è dispetto contro la natura, il suo; è una malinconia grande e profonda, una disperazione ragionata e tranquilla, che non deriva dal cuore malato, ma dallo spirito persuaso. Guardate come è alta e serena l'immagine della morte come egli la presenta! E come l'animo suo rimane gentile malgrado la disperazione! È un disperato che dice le più amare verità sulla vita e sulla natura; ma che è innamorato di tutto quello che è nobile e bello; uno spirito sovranamente generoso e benevolo, compreso d'una pietà immensa per i suoi simili; il quale, data la sua filosofia dolorosa, che crede meno funesta dell'errore, vuol consolare, non desolare il genere umano. Che peccato non poter gustare la sua forma, perchè chi sentiva e pensava in quella maniera, deve aver dato alla sua poesia un corpo degno dell'anima.
Da ultimo, accompagnandoci all'uscio, e soffermandosi accanto a ogni mobile per prolungare la conversazione, venne a parlare di quella gran passione d'ogni artista parigino, imprigionato nella città enorme, che lo condanna ai lavori forzati, di scappare un bel giorno come un uccello, e di volare a traverso al mondo, senza scopo e senza pensieri, libero come l'aria, a far buon sangue e a raccogliere vigore per tornare più poderoso alla gran battaglia di Parigi. Il suo primo volo sarebbe al di qua delle Alpi. — L'Italia è il nostro sogno — disse: — quando abbiamo la testa e il cuore affaticati, la nostra fantasia scappa laggiù, nel vostro azzurro e nel vostro verde. — Egli l'ha presa per tempo la passione dei viaggi. Lo raccontò ne' suoi Contes du lundi. Passò la sua infanzia in una città attraversata da un fiume, pieno di battelli e di traffico, sul quale aveva il suo piccolo scalo anche il père Cornet, che dava a nolo delle barche. Ah! quel père Cornet! È stato il satana della sua infanzia, la sua passione dolorosa, e il suo rimorso. Svignava di casa, bucava la scuola, vendeva i libri, per noleggiare una barca e scappare di città a colpi di remo. Non se ne può ricordare senza emozione di quelle deliziose fughe sul fiume, in mezzo al grande via vai delle zattere, del legname galleggiante, dei piccoli bastimenti a vapore, e dei barconi carichi di mele, che gli arrivavano addosso improvvisamente, e da cui una voce arrantolata gli gridava: — Fatti in là, moscherino! — Tutto questo gli dava l'illusione