enfasi suona dalla sua bocca di Titiro: LIBERTAS.[17] Gli agricoli di Virgilio nè sono schiavi nè mercenari. Essi sono di quelli di cui parla Varrone,[18] che coltivano la terra da sè, come tanti possidentucci con la loro figliolanza. Questi ha in mente Virgilio, quando esclama che sarebbero tanto felici, se conoscessero la loro felicità, con tanta pace, con tanto fruttato, tra tanto bello, senza il rodìo o della miseria o della soverchianza altrui, lavorando alla sua stagione, godendosi la famiglia in casa e le care feste fuori.[19] Di gente che lavori per altri, nemmeno una traccia. L'ideale del poeta è quel vecchiettino Cilice, trapiantato dalla sua patria nei dintorni di Taranto. Aveva avuto pochi iugeri di terra non buona nè a grano nè a prato nè a vigna: una grillaia, uno scopiccio. Ebbene il bravo vecchiettino ne aveva fatto un orto, con non solo i suoi cavoli, ma anche gigli e rose, e alberi da frutta, e bugni d'api, e vivai di piante.[20] Sì: il poco e il piccolo era il sogno dei due grandi fraterni poeti. Virgilio diceva: loda la campagna grande, e tienti alla piccina.[21] E Orazio: Questo era il mio voto: un campicello non tanto grande, con l'orto, con una fonte, e per giunta un po' di selvetta.[22] Chi non dovrebbe preferire la campagna grande alla piccola, quando non toccasse di coltivarla a lui? Ma ai due poeti, quando erano poeti, non si presentava al pensiero questa considerazione così semplice. A dir meglio, il fanciullo che era in loro, preferiva, come tutti i fanciulli, ciò che è piccolo: il cavallino, la carozzina, l'aiolina. Oh! c'è chi ha rimproverato a Orazio quest'amor della mediocrità! Ma esser poeta della mediocrità, non vuol dire davvero essere poeta mediocre. Il contrario, anzi, è vero. Non ama, chi dice di amare un serraglio di donne. Non è poeta, chi non si fissa in una visione che i suoi occhi possano misurare. E le cose grandi, le cose ricche, le cose sublimi non riescono poetiche, se non sono sentite o dette in persona di chi stupisce avanti loro, perchè appunto esso è piccolo, è povero, è umile. Il poeta è il poverello dell'umanità, spesso anche cieco e vecchio. E se tale non sembra, se anzi è gran signore e giovane e felice, ebbene vuol dire che se è ricco lui, è pauperculus però il fanciullino che è in lui; cioè si è conservato povero, come a dire fanciullo. Perchè poverino è sempre il bimbo, sia pur nato in una culla d'oro, e tende sempre la mano a tutto e a tutti, come non avesse niente, e desidera il boccon di pan duro del suo compagno trito, e vorrebbe fare il duro lavoro del suo compagno tribolato. Per questo non Virgilio proprio, ma il fanciullo che egli aveva in cuore, non voleva gli schiavi nei campi. Diremo noi che Virgilio attingesse dai libri di qualche filosofo o di qualche profeta questa legge di libertà? No: egli stesso ne era forse inconsapevole, di questa libertà che proclamava. Era la sua poesia che aboliva la servitù, perchè la servitù non era poetica. Non era poetica, e il divino fanciullo che non vede se non ciò che è poetico, non la vedeva. Tanto che noi se non avessimo dei tempi di Virgilio altro testimone che Virgilio, dovremmo credere che non esistesse allora più questa miseria e vergogna che non è cessata nemmeno ai nostri, di tempi. Oh! dovremmo credere che il Cristo non anco nato ispirasse al poeta contadino dell'Esperia, come il vaticinio del suo avvento, così il presentimento della grande fratellanza umana! Non c'è la schiavitù nell'Italia Virgiliana: nemmeno c'è il salariato, nemmeno il mezzadro!
Così il poeta vero, senza farlo apposta e senza addarsene, portando, per dirla con Dante, il lume dietro, anzi no, dentro, dentro la cara anima portando lo splendore e ardore della lampada che è la poesia; è, come si dice oggi, socialista, o come si avrebbe a dire, umano. Così la poesia, non ad altro intonata che a poesia. è quella che migliora e rigenera l'umanità, escludendone, non di proposito il male, ma naturalmente l'impoetico. Ora si trova a mano a mano che impoetico è ciò che la morale riconosce cattivo e ciò che l'estetica proclama brutto. Ma di ciò che è cattivo e brutto non giudica, nel nostro caso, il barbato filosofo. È il fanciullo interiore che ne ha schifo. Il quale come narrando le imprese dei suoi eroi, e dicendo tutto di loro, e, oltre le battaglie e i discorsi, anche i pasti e i sonni, e figurando a noi, per esempio, i loro cavalli, e ridicendo che brucavano e sudavano e spumavano, pur non dice mai (tu vedi che procuro quanto posso, che tu non torca il nasino) non dice mai che stallavano; così della nostra anima non racconta che il buono e della nostra visione non ricorda che il bello. Che per cantare il male bisogna fare uno sforzo continuo su sè stesso, a meno che non si tratti di pazzia. E in questo caso, la pazzia sta appunto in questo, di pensar da buoni e cantar da cattivi.
Così, caro fanciullo, hanno gran torto coloro che attribuiscono, per ciò che tu non vedi che il buono, qualche merito di bontà a colui che ti ospita. Il quale può essere anche un masnadiero, e aver dentro sè un fanciullo che gli canti le delizie della pace e dell'innocenza, e la casa dove non deve più riposare, e la chiesa dove non sa più pregare.
VI.
Il poeta, se è e quando è veramente poeta, cioè tale che significhi solo ciò che il fanciullo detta dentro, riesce perciò ispiratore di buoni o civili costumi, d'amor patrio e familiare e umano. Quindi la credenza e il fatto, che il suon della cetra adunasse le pietre a far le mura della città, e animasse le piante e ammansisse le fiere della selva primordiale; e che i cantori guidassero e educassero i popoli. Le pietre, le piante, le fiere, i popoli primi seguivano la voce dell'eterno fanciullo, d'un dio giovinetto, del più piccolo e tenero che fosse nella tribù d'uomini salvatici. I quali, in verità, s'ingentilivano contemplando e ascoltando la loro infanzia. Così Omero, in tempi feroci, a noi presenta nel più feroce degli eroi, cioè nel più vero e poetico, in Achille, un tipo di tal perfezione morale, che potè servire di modello a Socrate, quando preferiva al male la morte. Così Virgilio, in tempi più gentili, avendo la mira soltanto al poetico, ci mostra lo spettacolo tanto anticipato, ahimè! d'un'umanità buona, felice, tutta al lavoro e alle pure gioie dei figli, senza guerre e senza schiavi. Gli uomini, al suo tempo, parrebbe che avessero impetrato, ciò che è ancora il desiderio inadempiuto de' nostri operai, le otto ore di lavoro per ogni otto di sonno e altre otto di svago. — Oh! qualche volta presso lui il contadino aggiunge la notte al giorno! — Sì: ma che dolcezza di lavoro, quella, tra l'uomo che col pennato fa il capo a spiga a suoi rami di pino, che hanno a essere fiaccole, e la donna che o tesse la tela o schiuma il paiolo cantando.[23] E nell'Eneide Virgilio canta guerre e battaglie; oppure tutto il senso della mirabile epopea è in quel cinguettìo mattutino di rondini o passeri, che sveglia Evandro nella sua capanna, là dove avevano da sorgere i palazzi imperiali di Roma.[24]
Ma Omero, ma Virgilio non lo facevano apposta. Ma il poeta non deve farlo apposta. Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del maestro, un artiere che foggi spade e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri, un artista che nielli e ceselli l'oro che altri gli porga. A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l'uno e l'altra. Egli, anzi, quando li trasmette, pur essendo in cospetto d'un pubblico, parla piuttosto tra sè, che a quello. Del pubblico, non pare che si accorga. Parla forte (ma non tanto!) più per udir meglio esso, che per farsi intendere da altrui. È, per usare imagini che sono presenti ora al mio spirito, è, sì, per quanto possa spiacere il dirlo, un ortolano; un ortolano, sì, o un giardiniere, che fa nascere e crescere fiori o cavolfiori. Sapete che cosa non è? Non è cuoco e non è fiorista, che i cavolfiori serva in bei piatti, con buoni intingoli, che i fiori intrecci in mazzetti o in ghirlandette. Egli non sa se non levare al cavolo qualche foglia marcia o bacata, e legare i fiori alla meglio, con un torchietto che strappa lì per lì a un salcio: come a dire, unisce i suoi pensieri con quel ritmo nativo, che è nell'anima del bimbo che poppa e del monello che ruzza.
Ora il poeta sarà invece un autore di provvidenze civili e sociali? Senza accorgersene, se mai. Si trova esso tra la folla; e vede passar le bandiere e sonar le trombe. Getta la sua parola, la quale tutti gli altri, appena esso l'ha pronunziata, sentono che è quella che avrebbero pronunziata loro. Si trova ancora tra la folla: vede buttare in istrada le masserizie di una famiglia povera. Ed esso dice la parola, che si trova subito piena delle lagrime di tutti.
Il poeta è colui che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno avrebbe detta. Ma non è lui che sale su una sedia o su un tavolo, ad arringare. Egli non trascina, ma è trascinato; non persuade, ma è persuaso.
Perchè