Grazia Deledda

Dopo il divorzio


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       Grazia Deledda

      Dopo il divorzio

      Pubblicato da Good Press, 2020

       [email protected]

      EAN 4064066070557

       PARTE PRIMA

       I.

       II.

       III.

       IV.

       V.

       VI.

       VII.

       VIII.

       PARTE SECONDA

       IX.

       X.

       XI.

       XII.

       XIII.

       XIV.

       XV.

       XVI.

       XVII.

       Indice

       Indice

      1904. In casa Porru, nella camera dei forestieri, c'era una donna che piangeva. Seduta per terra, vicino al letto, colle braccia sulle ginocchia rialzate e la fronte sulle braccia, ella piangeva singultando, scuotendo la testa come per significare che non ci era, non c'era più alcuna speranza. Le sue spalle rotonde, il suo dorso ben fatto, coperto dal panno giallo d'un corsetto stretto, s'alzavano e si abbassavano come un'onda.

      Intorno era quasi buio: la camera non aveva finestra; la porta spalancata sopra una loggia di mattoni s'apriva su uno sfondo di cielo cenerognolo che andava sempre più oscurandosi. Su quello sfondo brillava una piccola stella gialla lontana, lontana; e nel cortile s'udiva un grillo zirlare e la zampa d'un cavallo, di tanto in tanto, sbattersi sulla pietra.

      Una donna bassa e grossa, in costume nuorese, con un gran volto di vecchio grasso, apparve sulla porta, con in mano una candela di ferro a quattro becchi, in uno dei quali ardeva un lucignolo nuotante nell'olio.

      — Giovanna Era, — disse con voce grossa e rude, — che fai lì al buio? Sei lì? Che fai? Mi pare che tu pianga! Tu sei matta, in verità mia, tu sei matta!

      L'altra cominciò a singhiozzare convulsivamente.

      — Ah! Ah! Ah! — disse la donna grossa, avanzandosi, come meravigliata e scandolezzata. — Lo avevo detto io che piangevi! Perchè piangi? Tua madre è giù che ti aspetta, e tu piangi lì come una matta che sei.

      L'altra continuò a piangere più forte. La donna grossa appese il lume ad un lungo chiodo sul muro, si guardò attorno e cominciò a girare attorno alla piangente, cercando invano parole per confortarla. Non riusciva a dirle altro che:

      — Ma sei matta, Giovanna, sei matta!

      La camera dei forestieri (così è chiamata a Nuoro la stanza che in tutte le famiglie all'antica viene conservata per gli amici ospiti dei paesi vicini), era vasta, bianca, rozza, con un gran letto di legno, un tavolino coperto da un tappeto di percalle e adorno di chicchere e tazze di vetro; con moltissimi quadretti appesi in alto sulle pareti, quasi vicini al soffitto di legno non tinto. Dalle travi del soffitto pendevano grappoli d'uva raggrinzita e di pere gialle che piovevano una sottile fragranza. Bisaccie di lana, colme, dritte, stavano qua e là per terra.

      La donna grossa, che era la padrona di casa, prese una di queste bisaccie, la portò più in là, poi la riportò sul posto donde l'aveva presa.

      — Ecco, finiscila, — disse ansando per lo sforzo fatto, — che cosa vuoi farci? Non bisogna poi disperarsi; che diavolo, colomba mia; se il pubblico ministero ha chiesto i lavori forzati, non vuol dire che i giurati siano cani rabbiosi come lui...

      L'altra continuò a piangere e scuoter la testa, e fra i singulti gridava:

      — No... No... No...

      — Sì! Sì! Ti dico che è sì! Alzati o chiamo tua madre, — gridò la donna, gettandosele sopra. E le sollevò a forza la testa.

      Apparve un bel viso tondo e rosso, circondato da folti capelli neri scarmigliati, con due occhi neri gonfi e lucenti di pianto, e due sopracciglia nere foltissime, congiunte, arruffate.

      — No! No! — gridava Giovanna, dibattendosi. — Lasciatemi pianger sulla mia sorte, zia Porredda mia...[1].

      — Che sorte o non sorte! Alzati.

      — Non mi alzo! Non mi alzo! Lo condanneranno a trent'anni per lo meno. Voi non capite dunque che lo condanneranno a trent'anni?

      — Questo sta a vedersi. Eppoi, cosa sono trent'anni? Ma tu sembri un gatto selvatico, sai?

      L'altra strillava, si strappava i capelli, colta da un accesso di disperazione selvaggia. E gridava:

      — Trent'anni! Cosa sono trent'anni? La vita di un uomo, zia Porredda mia! Voi non capite niente, zia Porredda! Andatevene, andatevene, lasciatemi sola, per amor di Cristo, andate via...

      — Io non vado via! — protestò zia Porredda. — Un corno! Sono in casa mia, io! Alzati, figlia del diavolo, finiscila, che ti fa male! Aspetta a domani a strapparti i capelli, chè tuo marito non è ancora ai lavori forzati.

      Giovanna riabbassò la fronte, e riprese a piangere un pianto calmo, accorato, che spezzava il cuore.

      — Costantino mio, Costantino mio, — diceva con nenia, come cantano le prefiche davanti ad un morto, — tu sei morto per me, io non ti riavrò mai più, mai più. Quei cani rabbiosi ti hanno preso e legato, e non ti lasceranno più andar via. E la nostra casa resterà deserta, e il letto sarà freddo, e la famiglia andrà dispersa. Bene mio, agnello mio, tu sei morto per il mondo, così siano morti coloro che ti hanno legato!

      Davanti al dolore di Giovanna zia Porredda