Porru, uomo grosso, imponente, col petto molto stretto nel velluto turchino del giustacuore. Egli era un contadino che posava a letterato: aveva un faccione grigio che pareva un mascherone di marmo vecchio, con la corta barba a riccioli, le labbra grosse spalancate, e gli occhi grandi e chiari.
— Presto, presto a tavola! — disse zia Porredda, sbattendo il piatto in mezzo alla tavola. — Ah, voi ridete? Il piccolo dottore vi fa ridere?
— Io stavo per dare uno schiaffo a vostro nipote, — disse zia Bachisia.
— Perchè, anima mia? Venite dunque a tavola. Giovanna qui. Dottor Porreddu, venga qui.
Lo studente si gettò supino sul letto, stese le braccia, sollevò le gambe per aria, le riabbassò, si rialzò, balzò giù in piedi, sbadigliando.
E i ragazzi e Giovanna ricominciarono a ridere. Egli disse:
— Un po' di ginnastica fa bene. Oh Dio, come dormirò stanotte! Ho tutte le ossa slegate. Come ti sei fatta grande, Grazietta; sembri una pertica.
La ragazza arrossì e chinò gli occhi; zia Bachisia sporse il muso, scandolezzata perchè lo studente pensava a tutt'altro che alla storia da lei narrata, e perchè gli ospiti tutti facevano poco caso della disgrazia di Costantino. D'altronde anche Giovanna sembrava dimenticare, e solo quando zia Porredda le ebbe messo davanti una enorme porzione di maccheroni rosei fragranti di sugo, la giovine si rifece scura in volto e rifiutò di mangiare.
— Ve l'avevo detto io! — esclamò zia Porredda, meravigliata. — Essa è matta, in verità mia è matta! Perchè non mangiare ora? Che c'entra il mangiare, ora, con la sentenza di domani?
— Via, — disse zia Bachisia, non senza un po' d'acredine, — non far sciocchezze; non disturbar la gioia di questa brava gente.
E zio Efes Maria si mise signorilmente il tovagliuolo sotto il mento, e sputò la sua sentenza letteraria.
— Cuor forte contro la sorte, dice Dante Alighieri. Via, Giovanna Era, dimostra che tu sei un fiore delle montagne, più forte delle pietre. Il tempo appianerà ogni cosa.
Giovanna cominciò a mangiare, ma con un singhiozzo in gola che le impediva d'ingoiare le vivande.
Paolo stava zitto, curvo sul suo piatto: e questo era già pulito quando Giovanna arrivò a ingoiare il primo maccherone.
— Sei un vento, figlio mio, — disse zia Porredda. — Che fame da cane hai tu! Ne vuoi altri? Sì; e altri ancora? Sì?
— Oh bravo! — disse zio Efes — parrebbe che nella Città Eterna tu non abbia visto mai roba da mangiare.
— Eh, l'ho detto io, — affermò zia Porredda, — luoghi belli, se volete, ma là tutto si compra a soldi contanti. Io l'ho sentito dire, in verità mia: nelle case non ci sono provviste, come da noi, e quando nella casa mancano le provviste, voi sapete bene che non ci si sazia mai...
Zia Bachisia annuì, perchè purtroppo ella sapeva ciò che è una casa senza provviste.
— È vero o non è vero, dottor Porreddu?
— È vero, — egli diceva, mangiando e ridendo, e agitando le mani larghe e bianche dalle unghie lunghissime.
— Perciò egli è diventato una sanguisuga, un vampiro! — osservò zio Efes Maria, rivolto alle ospiti. — Non mi lascia una stilla di sangue nelle vene. Corpo del demonio, si mangia denaro a Roma!
— Ah, se sapeste, — sospirò Paolo, — tutto, tutto è così caro! Una pesca venti centesimi. Ah, ora sto bene!
— Venti centesimi! — dissero tutti ad una voce.
— Ebbene, zia Bachisia, e poi? Quando Costantino tornò?... — chiese Paolo.
— Ebbene, Paolo Porru... ah, io continuo a darti del tu, sebbene tu sii fra poco dottore, perchè quando eri ragazzino ti ho dato persino qualche scappellotto...
— Non ricordo; andate avanti, — disse il giovine, mentre le narici di Grazia fremevano per la stizza.
— Ebbene, ti dissi che Costantino mancò tre anni e che...
— Stette nelle miniere; benissimo, poi ritornò e fece pace con lo zio.
— Ed ecco che vide Giovanna mia, questa ragazza, e s'innamorarono: lo zio non voleva, perchè la ragazza è povera. Ricominciarono ad odiarsi; Costantino lavorava per l'avoltoio, e l'avoltoio non gli dava un centesimo. Allora Costantino venne da me e disse: — io sono povero, non ho denari per comprare i gioielli alla sposa e per fare la festa e il banchetto delle nozze cristiane, e anche voi siete povere: ebbene, facciamo così, sposiamoci soltanto civilmente, per ora; lavoreremo assieme, accumuleremo la somma necessaria per la festa e ci sposeremo poi con Dio. — Siccome molti usano far così, lo facemmo anche noi. Si fece in silenzio il matrimonio civile e vivemmo assieme d'accordo. L'avoltoio schiantava dall'ira; egli veniva ad urlare persino nella nostra strada, e provocava da per tutto Costantino. E noi lavoravamo. Dopo la vendemmia, l'anno scorso, mentre preparavamo i dolci per le nozze, Basile Ledda fu trovato ammazzato nella sua casa. La sera prima Costantino fu visto entrare da lui: era andato per annunziargli le nozze e chiedergli pace. Ah, povero ragazzo! egli non volle fuggire come io gli consigliai. E fu arrestato.
— Perchè era innocente... mamma... mia...
— Ecco che quella sciocca ricomincia a piangere. Se non taci, io non dico più nulla, ecco. Ebbene, Costantino fu arrestato, ed ora si fa il dibattimento ed il pubblico ministero ha chiesto i lavori forzati. Ma è un cane quel pubblico ministero? Ci son delle prove è vero, fu visto entrare Costantino di notte, in casa dello zio, che viveva solo come un uccello selvatico che era; si ricordò il passato: tutto questo è vero, ma prove non ci sono. Costantino si mostrò pieno di contraddizioni e di rimorsi: egli dice sempre queste parole: è il peccato mortale. Perchè devi sapere che egli è un buon cristiano, e crede d'essere stato colpito dalla sventura perchè visse con Giovanna prima di essersi sposati religiosamente.
— Ma ditemi una cosa...
— Aspetta. Aggiungi che sposati religiosamente, poi, si sono. In carcere, sì, in carcere, anima mia, figurati che cosa orrenda. Non ricominciare a piangere, Giovanna, altrimenti ti butto in faccia questa saliera. Eccola lì la sciocca! Tutti dicevano: no, no, non sposarlo; se egli è colpevole e viene condannato tu potrai sposarne un altro...
— Ah, come siete vili!... — urlò la giovine, con occhi fiammeggianti; ma lo sguardo acuto della madre si fissò sul suo ed ella tacque di nuovo.
— Lo dicevo io, forse? — chiese zia Bachisia. — No, lo dicevano gli altri, e lo dicevano per il tuo bene.
— Il mio bene, il mio bene, — si lamentò Giovanna, nascondendo il viso fra le mani. — Il mio bene è finito, è finito, è finito.
— Avete figli? — le chiese Paolo.
— Sì, uno. E se non ci fosse lui guai. Guai! Se Costantino verrà condannato e il bimbo non ci fosse, guai! guai! — E si ficcava le dita entro i capelli, al di sopra della fronte, e scuoteva la testa come una pazza.
— Tu ti ammazzeresti, cuor mio? — chiese la madre con ironia. Lo studente credette vedere qualche cosa di finto nel moto di Giovanna: la rassomigliò ad una famosa attrice, in una commedia francese, e parole scettiche gli uscirono dalle labbra, davanti al dolore della giovine donna.
— Ecco, — egli disse, — del resto ora è approvata la legge sul divorzio: ogni donna che ha il marito condannato può tornar libera.
Giovanna non parve neppure capire quelle parole, e continuò a scuoter la testa fra le mani; zia Porredda disse convinta:
— Sì, un corno! Neppure Dio può disfare un matrimonio!
Zio Efes Maria osservò, un po' beffardo:
— Già! L'ho letto sul giornale. Questo divorzio ora! Lo faranno in continente, dove, del resto, uomini e donne si maritano molte volte, senza bisogno di prete e di sindaco; ma qui, oibò!...
— No, babbo Porru,