Lodovico Ariosto

Lettere di Lodovico Ariosto


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sono in onta del vero, e, ci duole il dirlo, indicano nell'Ariosto, almeno in quel primo periodo, il cortigiano bramoso di raggiungere un favore che, volendosi ad ogni costo comperare, era dall'accorto ed avaro venditore tenuto sempre a più alto prezzo.

      Il poeta mostrò poi ricredersi in alcuni casi, dirigendo nel 1514 al cardinale un capitolo che, lungi dall'esaltarlo per casto, lo dice anzi trafitto più di una volta dalla fiera punta d'amore e non anche allora sanato[35]. Così nel Furioso loda la pietà del duca Alfonso per aver risparmiata la vita ai fratelli don Ferrante e don Giulio: e qui nettamente ricorda che i miseri pur sono suo sangue, della sua più cara famiglia[36].

      Era nel 1486 venuto alla luce in Venezia l'Orlando innamorato del conte Matteo Maria Boiardo, ristampato nove anni dopo coll'aggiunta del terzo libro nel suo stesso castello di Scandiano; e l'Ariosto rapito dalla lettura di quel poema, ove con vena inesauribile d'immaginazione s'intrecciano meravigliose avventure d'amore alle più splendide prove di valorosi paladini, rivolse ogni studio ai romanzi e poemi cavallereschi, traducendone alcuni de' spagnuoli e francesi nella lingua italiana per proprio esercizio. E perchè l'Orlando innamorato rimase imperfetto per la morte dell'autore, s'accinse egli a continuarlo, trattovi fors'anche da un sentimento d'affetto verso il luogo natìo, che facea riguardargli il Boiardo come suo conterraneo. Nel 1507 Lodovico aveva condotto molto avanti il suo Orlando furioso, ed essendo stato spedito a Mantova per consolarsi del felice parto della marchesana Isabella a nome del cardinale di lei fratello, gliene lesse una parte che le «fece passare due giorni non solo senza fastidio, ma con piacere grandissimo»[37].

      Al duca Ercole, morto il 25 gennaio 1505, è dovuto il merito di aver promosso in Ferrara il teatro italiano con aver ordinato al Boiardo, a Niccolò da Correggio, al Collenuccio, al Pistoia, al Guarino ecc., componimenti drammatici originali e tradotti specialmente da Plauto e da Terenzio, che faceva recitare talora da' suoi gentiluomini in una sala di corte sopra impalcato mobile adorno di bel scenario[38]; il che venne pure meritamente seguitato dal nuovo duca Alfonso I in tempo di carnevale e in altre feste straordinarie. E perchè l'Ariosto era stato sempre inclinato all'arte comica ed aveva già scritto la Cassaria e più tardi i Suppositi, due commedie in prosa (che poi ridusse in versi), vennero esse recitate, la prima nel 1508 e l'altra nel 1509, intramezzate di danze moresche, canti e suoni, con ottenere entrambe le commedie il più gradito successo, avendo altresì il medesimo autore declamato il prologo dei Suppositi; sicchè il duca diedegli incarico di soprintendere agli spettacoli teatrali di corte.

      Al cominciare del 1509 venne stabilita la lega di Cambrai tra Giulio II che ne fu il promotore, l'imperatore d'Austria, il re di Francia Luigi XII e il re Ferdinando d'Aragona contro la Repubblica veneta. Fu chiamato a farne parte anche il duca di Ferrara Alfonso I, che nel 19 aprile di detto anno nominavasi dal papa confaloniere della Chiesa. Il duca per mostrarsi ossequiente al re di Francia andò a trovarlo a Milano, ove allora era giunto col proprio esercito, e gli disse della carica conferitagli, e che l'avrebbe accettata o rifiutata come meglio fosse piaciuto al medesimo. Il re rispose di contentarsene: ma una tale deferenza essendo stata riportata al papa, «n'ebbe tanto sdegno, che l'amor che prima portava al duca Alfonso cominciò a convertirlo in odio»[39]. L'Ariosto fu allora spedito per la prima volta a Roma affinchè di concerto cogli amici prelati trovasse modo di pacificare il papa; rilevandosi altrettanto da due Rapporti di mess. Lud. Ariosto da Roma molto corrosi dal tempo e mancanti di data, ma che certamente si riferiscono a questa cagione. Leggesi in essi che il duca doveva necessariamente portarsi a Roma e dichiarare in persona al pontefice ch'egli «non era per corteggiare alcuno il quale volesse alzar la cresta contro Nostro Signore.... che le cose passeriano pessimamente quando non vi andasse e presto.... facendo intendere in secreto al Cristianissimo il bisogno di andare a Roma per le cose sue con i Veneziani, per esser liberato in perpetuo di quella obbligazione (del sale); perchè la protezione di S. M. non può liberare se non de facto, ma il papa può obbligare e liberare di ragione.... che la natura del papa è che quando comincia a voler male ad uno, sèguita in infinito.... che cadauna volta che andrà al re di Francia, dovrà anche andare a S. Santità per espurgare ogni sospicione che avesse conceputa di tale sua andata ecc.». Non abbiamo notizia che il duca si portasse per allora a Roma; e forse le ostilità incominciate di sùbito colla sconfitta dell'esercito veneziano a Ghiaradadda per opera dei Francesi il 14 maggio 1509 fecero rivolgere il pensiero degli alleati a cose di maggior importanza.

      Nell'agosto dell'anno stesso il cardinale Ippolito era andato al campo sotto Padova, e l'Ariosto scrivevagli da Ferrara le notizie che allora correvano per la città, facendogli ancora conoscere i lamenti che non a torto facevansi dal popolo per le colte di denaro che il duca ordinava, mostrando però sempre buona dose di adulazione quando soggiunge: «se V. S. fosse in questa terra, non seriano queste cose» (pag. 8).

      Da un'Orsolina di villa san Vitale ebbe l'Ariosto in questo tempo l'altro figlio naturale per nome Virginio che fu legittimato nel 1520 e in più valido modo nel 1530. Fu molto amato dal padre che lungamente lo tenne presso di sè, l'istruì con sollecitudine nel latino, poi lo mandò allo studio di Padova ad apprendere il greco, raccomandandolo al Bembo colla lettera del 23 febbraio 1521 (pag. 282) e colla Satira VII.

      Il 16 dicembre l'Ariosto fu inviato di bel nuovo a Roma con molta fretta, mutando ognora vetture e con pericolo di affogarsi per le acque cresciute fin su le ripe de' fiumi, affinchè chiedesse soccorso al papa contro la flotta che i Veneziani avevano spinta sul Po a danno del duca: «Poi nè cavalli bisognàr nè fanti»[40], giungendogli la notizia della vittoria che ne ebbero sei giorni dopo le armi del duca dirette dal cardinale, come dalla lettera che pubblichiamo in data 25 dicembre 1509 (pag. 9-11). La qual lettera ha la speciale importanza (di cui non s'accorse il Tiraboschi, che pur la vide e la cita) di farci conoscere che il Furioso poteva dirsi allora condotto al suo termine, quantunque non completato, poichè in essa si dice che il poeta averà istoria da dipingere a nuova laude del cardinale nel padiglione ove succedono le nozze di Ruggero e Bradamante, che formano il soggetto finale del poema; padiglione che porta figurate e dipinte la nascita e le imprese d'Ippolito d'Este. Ora se questo semplice cenno fu tenuto sufficiente per farsi comprendere dal cardinale, è da inferire che questi avesse già piena conoscenza del poema; come altresì è da inferire che provasse compiacenza delle lodi a lui profuse, se l'Ariosto si diede premura di annunciargli la nuova occasione di accrescerle, come infatti troviamo aver fatto colla stanza 97 introdotta nell'ultimo canto in cui dipinge la vittoria sulla flotta veneta, «la quale tanto più fu onorata e memoranda quanto manco si è inteso che alcuno imperatore o capitano, stando in terra, abbia mai presa armata in acqua»[41]. — Ma noi vedremo più avanti qual fosse la ricompensa serbata alle gentili sollecitudini del poeta.

      Avvenuta nel febbraio 1510 la morte del cardinale Cesarini abate commendatario di Nonantola (il quale pochi mesi prima erasi portato a quell'abbazia per accomodare alcune differenze d'investiture scadute e che fu colà dall'Ariosto visitato, pag. 5), il cardinale Ippolito, insaziabile di benefizi ecclesiastici, corse a Nonantola e nel 5 marzo sforzò que' monaci, che in numero solamente di sei ne formavano l'intiero capitolo, ad eleggerlo commendatario. Del quale arbitrio arditissimo sdegnossi altamente Giulio II, dicendo che il cardinale d'Este «voleva suscitare una prammatica al modo di Francia», e minacciò di fargli contro un grande processo. Ad allontanar la procella e trovar modo che restasse al cardinale l'agognata abbazìa, fu spedito per la terza volta l'Ariosto a Roma, raccomandato colla lettera che produciamo a pag. 305, da doversi intendere diretta al vescovo d'Adria Beltrando Costabili, il quale nel 25 maggio scriveva al cardinale Ippolito: «Ieri giunse mess. Ludovico Ariosto, e dipoi desinare lo introdussi a Nostro Signore, al quale espose quanto egli avea commissione molto accomodatamente, e parse che Sua Santità accettasse la giustificazione di V. Rev. Sig., ma circa a darli l'abbazìa non si risolse altramente, come più appieno quella intenderà per lettere di esso mess. Lodovico». Consisteva la giustificazione nel dar tutta la colpa ai poveri monaci, mostrando che avessero eletto il cardinale di loro libera volontà, e tentando ricuperare il diritto che un tempo avevano di farlo, e che poi si volle serbato al pontefice. Il Tiraboschi nella sua Storia della Badìa di Nonantola tace che il cardinale esercitasse in ciò alcuna pressione, e aggiunge solo che i monaci sperarono forse che il cardinale sostenuto dal duca suo fratello potesse render