il '60, siamo una gelida e arcigna generazione. Poco e di rado amammo; meno credemmo; e dubitammo troppo spesso di avere, ove ammirassimo oggi, a ricrederci domani. Abbiamo dell'acredine nel sangue; e molti di noi si vantano di essere d'un partito, credendo in verità che il non aver partito, quando la non sia una figura di parole, debba essere una immoralità. Per ciò quella gran bontà e larghezza del Regaldi non la possiamo accettar per intero: non dico che volessimo in lui un po' di fiele, che anzi in fondo desidereremmo per avventura di esser come lui; ma a noi iconoclasti quel suo voler di frequente rizzar degli altari fa specie. Tutto ciò avvertiamo, a dir vero, non per lui, che avrà benissimo le sue ragioni di far cosí, ma per i giovani e per noi stessi. Per noi stessi, dico; perché anche noi alla fin fine, a sentirci sempre brontolar d'intorno questo fiotto di lodi, abbiamo come pubblico il diritto di gridare: Alto là, rendeteci un po' di ragione.
Il Regaldi, per esempio, afferma di vedere nel discorso di Alessandro Manzoni intorno a' Longobardi connaturate, direbbe quasi, le anime del Muratori e del Vico. Tutto cotesto in un discorso solo non vi par troppo? Aggiungete un zinzin di Dante (e già ci son di quelli i quali per conto loro mandano di pari passo il Manzoni e Dante), ed eccovi, si passi un po' d'iperbole anche a me, eccovi rifatta una specie di padre eterno. Io intanto, dalla parte mia, per quanto possa ammirare l'autore dell'Urania, dei cori dell'Adelchi e dei Promessi Sposi, Vico e Muratori insieme non lo crederò ancora. Mi permette tanto la vostra tolleranza, signori lettori?
Qualche altra volta l'enfasi fa dimenticare al Regaldi il buon gusto. Egli, poeta delle reminiscenze bibliche, si ostina a chiamar Debora del Piemonte la signora Giulia Colombini. Ora la signora Giulia sa troppo bene chi la Debora fosse, e non avrebbe fatto mai quel che ella fece: cioè, se un generale austriaco fosse stato ospitato in casa d'un piemontese amico suo, e se la costui moglie, ospitatolo e datogli mangiare, gli avesse poi, mentre dormiva, piantato tanto di chiodo nella tempia, la signora Giulia non avrebbe cantato per ciò alleluia. Le son cose coteste da farle e lodarle le donne della santa nazione: noi poveri giapetici non siamo tanto perfetti, e dobbiam contentarci delle egoistiche e selvagge virtù di Atene e di Roma. Del resto, nel canto della pretessa ebrea certa energia, come quella dell'indiano che scalpella il teschio del nemico vivo, non manca. Per il nome adunque di Debora son troppo poca cosa dei versi come questi della signora Colombini:
Ma, nuovo Curzio, nel fatal momento
Diede il suo capo il gran Biellese, e volle
Sé stesso per la patria in sacramento:
Scoppiò l'eccelsa polve, e glorïoso
Micca su mille eroi tomba si aderse.
Importa egli provarlo?
Per certi giudizi, del resto, qualcosa è pur da concedere alla maniera di stile adoperata dal Regaldi in questa prosa. E chi mi domandasse che stile è cotesto, mi attenterei di accennare le due figure litografiche che adornano le copertine del libro. In quella d'avanti c'è la Naiade della Dora: tale almeno la dimostrano la classica urna su cui appoggia l'un braccio e il remo che sorregge dell'altro e la ghirlanda di canne: differente dalle antiche ninfe in questo, che ha un po' di camicia per mezzo il seno e una gran gonnella pe 'l rimanente del corpo. È classicismo rammodernato. Nella copertina di dietro si vede un vecchio seduto fra le ruine d'un castello del medio evo, e legge in un gran codice. Probabilmente doveva simboleggiare l'archeologia o l'erudizione storica: ma per me è un bardo, un trovatore, un poeta in somma di ballate e di leggende bell' e buono: chi altro, salvo un poeta sí fatto, si piglierebbe la scesa di testa di leggere al lume della luna e, per dirla col Davanzati, in zucca, come fa l'uomo della copertina? Se non che, ficcategli ben bene gli occhi in viso a cotest'uomo; e vi riconoscerete in fondo il buon compagno, e pratico a sufficienza della vita di questo mondo: come pure, riprendendo a vagheggiare la Naiade d'avanti, non c'è caso che quel viso furbetto mi voglia ricordare nulla delle alpi, ma sí bene le belle fanciulle in cui si avviene chi torna le sere di festa per le stupende colline da Moncalieri a Torino.
Non so se mi son fatto intendere: ma queste imagini a me pare che possan rendere un'idea della prosa della Dora, con le sue aspirazioni all'idillio alla lirica all'epos romanzesco, temperate e tal volta turbate o mortificate da un sentimento troppo vivo della realtà convenzionale. In questi contrasti l'arte ci perde un cotal poco: dico che il poeta perde la serenità della inspirazione, il pittore la sicurezza della mano; e la intonazione lirica diventa confusa e strepitante, e nella pittura idilliaca si ricorre spesso alla biacca. Vorreste un qualche esempio? Prendiamolo súbito dalle prime pagine. Si tratta, a pagina 13, del corso diverso della Duranza e della Dora, che la prima scaturisce dalla costa orientale del Monginevra, la seconda dall'occidentale: due sorelle, geni del bene e del male usciti da un medesimo principio, dice il Regaldi; e séguita: «Direbbesi quasi che nella Duranza si agiti una furia, la quale dalle Alpi scendendo minacciosa porti colle gonfie acque la desolazione nei seminati campi della Francia. Non cosí della Dora, fecondatrice benefica delle nostre campagne subalpine. Nelle sue sorgenti ella sospira con innocente grazia pastorale, e discesa al piano diviene regina, diletta ed onorata da tutte le genti italiane. Gli spiriti di Caino e d'Abele s'incontrano su le piú alte cime del Monginevra. Quello di Caino mira all'occaso, e seguitando nella loro corrente le acque della Duranza rinnova la sua antica disperazione; e lo spirito di Abele guardando ad oriente benedice le acque della Dora, e le accompagna coi canti dell'amore e dei santi olocausti.» A pagina 17 si descrive una pastorella di Bousson: «In quell'ora procellosa Lucia era veramente l'angelo, la stella della consolazione. Vestiva un giubboncello di panno bigio, una corta gonnella, egualmente di panno di tinta oscura, con un grembiale di tela turchina. La parte superiore del giubboncello terminava a fior di spalle in una listina di mussola, che in gran parte copriva gli avori del seno. Il volto di Lucia sarebbe stato all'Urbinate un prezioso modello per le sue madonne. Gli occhi azzurri ed i coralli del breve labbro sfavillavano fra i gigli e le rose del verginale sembiante; ed il cuffiottino di trapunto bianco con due fettucce raccomandato al mento faceva viemmeglio spiccare quell'angelico viso, sul quale scorrevano a guisa di fila d'oro le ciocche de'biondi capegli.» Ecco rappresentate in due esempi le virtú e i vizi di questo stile: vuolsi tuttavia notare che i vizi, o quelli che a me paiono tali, non sono tanto del Regaldi quanto di cotesto genere letterario: ricordiamoci certe pitture dello Chateaubriand, certe altre del Gessner.
Dopo ciò non parrà strano che gli splendidi coloritori, com'è il Regaldi, riescano un po' meno felici, ove a rendere la tenuità del concetto richiederebbesi tale una nitidità di disegno e una facilità di lingua propria netta e viva che non è di troppi oggigiorno. Racconta il Regaldi come riparasse da un temporale nella capanna del vecchio Giacomo, padre della Lucia, della pastorella con la cui vaga figura abbiamo fatto conoscenza pur ora. La folgore serpeggiava innanzi al finestrino della capanna, romoreggiavano i tuoni, e il poeta mormorava certi versi del Tasso. Ma «il buon vecchio levatosi da sedere volse gli occhi alla imagine di Maria; e, stesa la callosa destra, prese il rosario, e, baciatolo, mormorò una preghiera e versò qualche lagrima. Lucia, vedendomi intento a quell'atto religioso, mi disse:—Il padre stringe il rosario, che la cara madre aveva fra le mani, quando morí in questa capanna pregando per noi. Quell'immagine e quel rosario sono il nostro scampo nelle disgrazie. Ah! vedete come già cessa lo scrosciar dei tuoni e il diluviar della pioggia?» Scommetto che il Baretti, per esempio, uomo rotto com'era e non portato da vero all'idillio, questo discorsetto l'avrebbe fatto un po' meglio, con piú naturalezza vo' dire. Del che molte ragioni si potrebbon recare: a me basta avvertire che quel che manca specialissimamente al nostro secolo, al nostro secolo che pur si vanta di esser ritornato alla natura ed al vero e grida tant'alto contro il cosí detto convenzionalismo e le accademie, è a punto in generale un po' di natura e di verità al men nello stile. Vero è per altro che gli scrittori in prosa oggigiorno, in confronto a quei del settecento un po' piú freddi un po' piú secchi e poveretti, hanno della imaginazione sin nell'impasto della frase e una certa magnifica arte di disporre che fa delle volte ottimo effetto. «Veramente il cielo si abboniva (séguita il Regaldi); ond'io, ringraziati l'uno e l'altra delle amorevoli accoglienze, uscii colla guida per affrettarmi a Cesana, dove giungemmo in capo ad un'ora sotto luminoso arcobaleno, che coronando la capanna del pio pastore dalle falde del Chiabertone alle acque della Ripa mirabilmente si distendeva.» E cosí finisce il paragrafo. È un bel finire: pur che questo della imagine in fondo non divenga un processo sistematico, come piú d'una volta