Francesco Domenico Guerrazzi

Vita di Francesco Burlamacchi


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non solo prima di Francesco, ma anco molto tempo dopo, come ricavo da certo albero genealogico che ho per mano, il quale mi mostra un Paolino morto nel 1824, e tengo per certo che ogni fiato di lei non sia anco spento. Il Penintesi nelle Memorie[7] intorno alle principali famiglie di Lucca ci afferma che ai suoi tempi quella dei Burlamacchi annoverava non meno di quaranta gonfalonieri e centottanta anziani, fino d'allora la rendevano preclara parecchi oratori spediti alle più cospicue corti di Europa, non pochi cavalieri di Malta, col solito corredo di ecclesiastici, i quali (come si sa) furono tutti matricolati per pietà e per dottrina preclari, almanco a detta di chi scrisse di loro.

      In antico ebbero stanza i Burlamacchi in certa torre fabbricata dentro l'Augusta, fortezza posta da Castruccio Castracani in difensione di Lucca, la quale fu demolita nel 1392 insieme con altre per cavarne i materiali occorrenti a restaurare le mura della città, essendosi molto tempo prima ridotta la famiglia Burlamacca a vivere in altra casa prossima alla chiesa dei santi Paolino e Donato. La contrada di San Paolino compariva in cotesti tempi capitalissima della città, sicchè nel 1459 vi si contavano bene dugento torri, delle quali quattro spettavano ai Burlamacchi, la prima a Filippo Burlamacchi, di fronte a quella la seconda a Frediano che lungamente dimorò in Fiandra, la terza sorgeva di contro alla chiesa di san Paolino, e la quarta poco quinci discosto dal lato di tramontana: chiamasi il luogo quadrivio dei Burlamacchi; le quattro torri l'una all'altra prossime poste in assetto di guerra formavano fortezza inespugnabile secondo gli ordinamenti militari di codesti tempi. Insieme co' Poggi essi esercitarono il patronato della chiesa di Santa Maria di Filicorti, soli quello di Santa Maria della Rotonda; i sepolcri della famiglia furono fuori della chiesa di san Romano: fecero per impresa e fanno Croce azzurra in campo di oro e per cimiero una Sirena. Varie nei vari tempi le sostanze loro: nel 1530 i Burlamacchi si facevano ricchi di centoventimila fiorini e più, senza contare la casa nè l'opificio della seta: Michele, che morì nel 1529, lasciò di sua parte sessantacinque mila fiorini d'oro, oltre il fondaco avviato, a Francesco e agli altri suoi figliuoli, i quali per testimonianza del Penintesi avevano di già molto cresciuto il capitale e lo andavano ogni giorno viepiù aumentando, se non fossero loro cascati addosso due malanni, di cui il primo fu la rappresaglia commessa a loro scapito dalla Repubblica fiorentina sopra le navi dei grani che di Sicilia essi avevano tratto, e il caso più tardi avvenuto a Francesco, per la carcerazione e morte del quale i negozi parte cessarono e parte trapassarono in altri, non tenuto conto della moneta spesa per salvarlo.

      Francesco, come i suoi maggiori, esercitò l'arte della seta, la quale con quella della lana fu dai Fiorentini rassegnata meritamente tra le arti maggiori: onde ci appare il rinfaccio che l'Ammirato e Adriano fanno a Francesco della sua condizione di artefice non pure strano, ma temerario; imperciocchè gli ordinamenti politici della Repubblica di Firenze appunto sopra le arti maggiori e minori si fondassero, nè alcuno il quale a queste arti non fosse ascritto potesse avere stato. I Capponi a Firenze non erano registrati alla matricola dell'arte della seta, ovvero di Por San Maria? Le storie poi ricordano come Nicolò Capponi, che fu lo antipenultimo gonfaloniere della Repubblica, accudisse al traffico della seta, e tanto in lui poteva l'amore dell'arte, o piuttosto del guadagno, che, contro il divieto della legge, eletto gonfaloniere, usciva di palazzo alla chetichella per vigilare se le donne gli avessero incannato la seta e le altre cose dell'opificio andassero a dovere. Gli Strozzi per converso più che alla seta attesero alla lana, ovvero all'arte di Calimala, e ne tennero fondaco allora e prima e dopo di allora insieme al banco dei danari in Lione, a Venezia ed in altre città capitali della Europa: anzi le case Strozzi e Burlamacchi conservarono corrispondenza di affari lungamente fra di loro. I Medici mercanti sempre furono e le ricchezze loro cavarono dal prestare a usura; sembra altresì che facessero a fidarsi poco, imperciocchè fra le altre cose si narra che se papa Martino V volle danaro da Giovanni dei Medici soprannominato il Bicci, gli ebbe a dare in pegno la tiara pontificale (chè allora la superbia papesca non aveva per anco inventato il triregno); nè smisero i commerci anco quando tennero il supremo dominio della Toscana, allora, comechè principi fossero, parte ne assunsero in proprio, parte in società e furono di gioie, di metalli, di grani e di altre siffatte mercanzie; del pepe fecero monopolio, onde se essi mostrarono ed operarono che le persone a loro aderenti mostrassero uggia pei commerci, certo e' fu nel concetto medesimo del ghiottone, che sputa su la pietanza perchè, gli altri commensali pigliandola a schifo, egli possa mangiarla tutta per sè.

      Da Michele e da Caterina Balbani nacque primogenito Francesco Burlamacchi il 18 settembre 1498 e fu battezzato nella chiesa di San Giovanni; dopo lui da cotesto matrimonio uscirono altri cinque figliuoli. Stefano, che molto dimorò per causa di negozi in Francia, tornato in patria, tolse per donna Antonia dei Nobili, con la quale procreò una figliuola per nome Chiara; i ricordi dei tempi ce lo attestano uomo di cuore e valoroso: Agostino recatosi in Francia si fermò a Lione, e se lasciasse discendenza non è noto: Nicolao da Lucrezia dei Nobili ebbe un figliuolo solo, il quale presa a tedio la patria seguì a Lione lo zio Agostino, di cui niente altro sappiamo, eccettochè, inteso tutto intero alla caccia, si acquistò fama di robusto cacciatore pari a quella di Nembrod; secondochè avviene agli uomini dediti ai diletti della materia, non patì mancamento di prole così maschile come femminile, per via diritta come per via storta. Paolo schivò le nozze, per diversi paesi tentò fortuna e sempre invano, chiuse i suoi giorni, se non misero al tutto assai prossimo alla miseria, a Ferrara.

      Degli studi di Francesco Burlamacchi poco sappiamo: certo, se argomentiamo dai libri che egli aveva in delizia, possiamo accertare che molti e profondi dovevano essere, conciossiachè ci affermino quanti di lui scrissero ch'egli si dilettava maravigliosamente di storie e della lettura continua delle opere di Plutarco: ora le midolle del lione si confanno solo ad Achille e lo nudriscono. Rarissimo nel secolo decimosesto il giovane nato da genitori onesti che fosse alieno dalle discipline gentili, e tu incontravi sovente fra gli stessi artefici in Toscana bei dicitori in prosa o in rima e scrittori forbiti, e male mi conduco a credere che anco nel popolo minuto fossero allora ignoranti di lettere come adesso sono. Se io ricordassi che le ricerche, le quali si chiamano statistiche, ci abbia chiarito come fra le provincie italiane la Toscana sia la più infelice di tutte, e fra le città toscane Firenze, solo allo scopo di palesare un fatto irremediabile, senz'altro meriterei la taccia di maligno, ma io mi vi induco perchè la Toscana e Firenze si vergognino, e, non considerata logora ormai la fama che ci veniva dagli avi, attendiamo a procacciarcene un'altra con la virtù e con le lodevoli fatiche nostre. Per ultimo sappiamo come ponesse amore nel giovinetto Francesco lo zio fra' Pacifico domenicano e lui con diligente cura ammaestrasse. Ora è da sapersi che questo fra' Pacifico al secolo fu Filippo e fratello a Michele Burlamacchi, il quale dimorando a Firenze pigliò usanza con fra' Girolamo Savonarola, e tanto di esso e delle sue dottrine si accese che da lui in fuori non volle avere altro confidente e maestro, per guisa che, vinto da sdegno per le mondane cose a cagione della lacrimabile morte del frate, rifuggissi a Lucca, dove al tutto disposto di dedicarsi a Dio vestì l'abito di san Domenico nel convento di San Romano col nome di fra' Pacifico. In questo fidato asilo meditando continuo da un lato sopra la bontà di frate Girolamo e sopra i concetti di lui, che gli parevano santi, dall'altro su la perversità degli uomini, i quali, come di ordinario succede, non contenti di spegnere la vita di un uomo, pare che non possano vivere se ad un punto non ne spengano la fama, concepì l'ardito disegno di dettarne la vita e la condusse a termine. Quest'opera, più volte stampata ed anco ai giorni nostri letta, fu la prima che comparisse intorno al frate: la si trova scritta in buono stile ed ha fornito agli altri se non tutte, certo la massima parte delle notizie dello infelice riformatore: e come se questo fosse poco, il nostro animoso fra' Pacifico prese senza sospetto nè rispetto alle ire di Roma a difendere la reputazione del Savonarola, al quale fine compose un dialogo fra Didimo e Sofia diviso in più giornate, che si conserva manoscritto nella libreria dei frati di San Marco di Firenze, il quale io confesso di non avere mai letto. La tradizione ci attesta, ed è di leggieri credibile, che fra' Pacifico per costumi severi e carità di opere lasciasse rinomanza di santo: rassegnato ed umile, come colui che, pigliando a combattere una potenza immane, presentiva la lunga contesa e i danni delle battaglie; avventato poi ed acceso, come quegli che presente del pari il futuro trionfo della sua fede. Gli uomini, massime giovani, vaghi di sapere le vicende del mondo assai volentieri frequentavano il convento di San Romano dove fra' Pacifico, dopo avere appagato la curiosità loro, li metteva sopra la strada di ragionare su le romane enormezze e detestarle, non anco eretici, ma ormai non più cattolici. Francesco dal dire e più dal fare dello zio