un’ora nei giorni di lavoro, due ore nei giorni di festa, e più, all’occorrenza, secondo la durata degli uffizi divini. Quante preghiere! direte. Ma sì, è ben necessario che qualcuno preghi per tutti coloro che ne han perso l’uso: se poi non è necessario, pensate che il pregare della contessa Albertina non ha mai fatto male a nessuno.
Sull’altar maggiore, di sopra al tabernacolo, sorgeva un gran crocifisso di legno. Quel crocifisso era la maraviglia del paese. Si diceva, tra quei terrazzani, che non ce ne fosse uno più bello al mondo, neanche a Roma; e si soggiungeva che certi inglesi avessero offerto di pagarlo a peso d’oro; la solita chiacchiera! Certo, era bello; più elegante che vero, aveva sentenziato uno scultore verista, che era passato di là. Ci si vedeva il modellato dell’Apollo del Belvedere, col risalto armonico dei muscoli, con la giusta gentilezza delle membra, con la soave finezza delle articolazioni; solo si notava negli occhi e nella bocca una espressione di dolore, ma niente più di quella che occorre negli occhi e nella bocca della Niobe di Scopa; non c’era insomma l’accasciamento di un corpo rifinito dallo spasimo della morte, nè lo stiracchiamento delle braccia, nè la torsione in avanti degli omeri, nè la uscita fuori di squadra delle due scapole, come sarebbe stato necessario, con tanto traboccare di una massa pesante.
Alle quali ragioni dottissime aveva risposto un collega della scuola idealista, che nella rappresentazione dei tipi consacrati dalla tradizione dell’arte bisogna dare la parte sua all’uso costante, all’opinione ricevuta, al sentimento universale; che soprattutto non è da far vedere un Dio morente nella medesima condizione statica di un giovane facchino appiccato per due ore al giorno come modello nello studio di uno scultore. Il vero, sì, ma non tutto il vero; altrimenti, perchè non si crocifiggerebbe un uomo al giorno, per esporne con utilità di sensazioni estetiche la ineffabile angoscia alle turbe? Quello è infatti il vero, veramente vero. Ma ancora, in quel caso, si vedrebbe che non tutti gli organismi umani si diportano ad un modo, nell’atteggiamento della persona, nell’abbandono delle membra, nell’espressione dell’agonia. Così nella parrocchiale di San Giorgio le due scuole si erano bisticciate un tantino, ma persuadendosi ancora a vicenda che si può esser bravi artisti e farsi onore con ogni scuola; e avevano poi fatta all’insegna dei tre Re una pace temporanea, come la faranno un giorno definitiva, alla consumazione dei secoli.
I piedi del crocifisso sparivano quella mattina sotto una gran fioritura di rose, disposte a mazzo enorme, legato al tronco della croce. Belle rose di ogni forma e d’ogni grandezza, chiuse ancora od aperte, d’ogni profumo, d’ogni temperanza del rosso e dell’incarnato, del pavonazzo e del cremisi, del salmonato e del giallo; davano tutte insieme a quell’augusto morente l’aspetto di un trionfatore.
—Sei stata tu, non è vero?—bisbigliò Maurizio all’orecchio di sua sorella, indicandole quel gran mazzo di rose.
—Sì,—rispose ella, arrossendo lievemente.—Sono di quelle che ha piantate nostra madre. Il Castèu è sempre il primo ad averne; ed è stata veramente una fortuna che ce ne fossero tante, per festeggiare il tuo arrivo a casa.—
Maurizio si sentì scorrere una lagrima giù per le guance. Anch’egli, come la sua buona sorella Albertina, vide nel presente il ricordo del passato, e v’associò la promessa del futuro. Non voleva più andarsene da San Giorgio; dalla terra alpina dove dormivano i suoi maggiori; dal solitario Castèu, dove prima che altrove fiorivano così bene le rose.
Finita la messa, uscirono sulla piazza, per ritornare a casa; lentamente, per non aver aria di fuggire, ed anche allungando un tantino la strada, per abbondanza domenicale. Così videro sfilare in parata tutto quanto il paese; e da ogni parte erano inchini, sberrettate, scappellate, a cui bisognava rispondere. Maurizio notò sottovoce a sua sorella di non essersi provveduto abbastanza, alla Spezia, portando solamente due cappelli con sè.
—Aspetta la prima fiera;—gli rispose Albertina.—Ci saranno cappelli d’ogni qualità: ed anche verrà la paglia di Nizza, che solevi ricordare nelle tue lettere.
—Infatti, è strano;—esclamò Maurizio.—Non se ne trova più. E neanche paglia di Firenze, che la somiglia tanto. La moda, la moda! è una gran sciocchezza, la moda.—
Ma sua sorella non la intendeva così, quantunque alla moda sacrificasse ben poco.
—Bada di non far la ruggine, Maurizio; e soprattutto non ti far vecchio prima del tempo.—
Rideva, la buona zittella; e ridendo, diventava più giovane. Rispondeva più ilare, più serena, più franca ai saluti che venivano d’ogni parte. A San Giorgio sicuramente, da dieci anni almeno, non l’avevano più veduta così.
—Vedrete che torna bella;—dicevano alcuni.
—Lo era tanto a vent’anni!—rispondevano altri.—Ce n’è rimasto qualche poco, per far festa al signor Maurizio.
—Quello, poi, li ha sempre, vent’anni. E dovrebb’essere sui trentacinque.
—No, non può averne che trentadue. Ricordate? è nato lo stesso giorno del figlio di Misa Margoton.—
Misa Margoton, che serviva d’indice cronologico ai terrazzani di San Giorgio, era una nizzarda, andata giovanissima lassù, a fare la ciambellaia. Erano famose per tutta la Vaussana la ciambelle di Misa Margoton, e facevano furori a tutte le fiere, a tutte le sagre dei dintorni.
Alla svolta di una strada, la coppia fraterna s’incontrò ad angolo con tre persone, di aspetto assai signorile, una donna e due uomini: uno di statura giusta, piuttosto atticciato, con due gran baffi biondi largamente brizzolati di bianco, di bell’aspetto, gli occhi cerulei, e una faccia di color sanguigno che forse aiutava a levargli otto o dieci dei sessant’anni che gli davano a prima giunta i suoi baffi; l’altro d’aspetto grigio, alto e magro, con due gambe di ragno, figura pulita di cavaliere malinconico; la donna giovane, elegantissima nella semplicità del vestimento, biondi i capelli e rosea la guancia, come la regina Isotta dei canti medievali.
Erano facce nuove per Maurizio, che pur dovette salutare, imitando la sorella, in risposta al primo saluto del signore dai baffi biancheggianti. Il quale, rinnovando il saluto, o piuttosto appoggiandolo con un cenno del capo, si voltava ancora un tratto a guardare, e sicuramente per veder meglio lui, che gli giungeva nuovo egualmente.
—Villeggianti precoci!—disse Maurizio alla sorella.—Ma già, niente maraviglia, se ci son già le rose al Castèu.
—Non villeggianti; vivono tutto l’anno a San Giorgio. Non conosci più i proprietarii della Balma?—rispose Albertina, sospirando.
—Povera Balma!—ripigliò il giovane, che aveva colto a volo il sospiro.—Ma non è dunque più dei Matignon della Bourdigue?
—Lo è sempre. E quel signore dei baffi bianchi è il generale, il cadetto della famiglia.
—Come? come? il capitano, quello? così smilzo allora, e così biondo, che lo chiamavano l’Arcangelo Gabriele?
—Lo hai lasciato capitano, biondo, smilzo, ed ora è complesso, bianco e generale;—rispose Albertina, ridendo.—Pensa, caro mio, che son passati venti anni.
—È vero;—conchiuse Maurizio, chinando la testa.—Il capitano della Bourdigue, nizzardo, che aveva optato nel ’61 per la Francia. E come è passato ora a vivere di qua dal confine?
—Il fratello maggiore è morto cinque anni fa. Rimasto unico dei Matignon, ha preso il suo ritiro, ed è venuto a vivere alla Balma.
—E quella signora è sua figlia?
—No, sua moglie.
—Come? ma se ha l’aria di una ragazza! O figlia, o nipote, avrei detto.
—Ed è sua nipote, infatti.
—Ah, ora ci sono;—gridò Maurizio.—La figlia del signor Camillo.... il miscredente.—
Il volto della contessa Albertina si rabbruscò, a quella scappata del fratello Maurizio.
—Perchè miscredente?—diss’ella con accento di mite rimprovero.
—Lo