Ma, insomma, egli stesso, Dante, ha confessato di voler essere oscuro e di volere ora esercitare l’acume, ora mettere a prova la dottrina de’ suoi lettori. E guai se questo acume e questa dottrina fosse quanto e quale sarebbero stati necessari a scoprire il velo delle canzoni del Convivio! Starebbero sulla porta della Comedia queste parole di colore oscuro: La vera sentenza... per alcuno vedere non si può, s’io non la conto.[8]
IV.
Ma a bene sperare, che il Poema sacro, sebbene volutamente faticoso e forte, sia pure accessibile alle nostre menti, invita una considerazione tra le altre. Il Poeta nel Convivio dichiara che dal suo Comento, un effetto può derivarne al lettore: ‛non solamente... diletto buono a udire, ma sottile ammaestramento, e a così parlare e a così intendere l’altrui scritture’. Ora, non c’è bisogno di moltiplicare parole per intendere che dal capire la Comedia egli dovesse imaginare al lettore oltre quel diletto e quell’ammaestramento, un effetto di utilità più larga e profonda. Tutto il poema ci attesta che questo effetto il Poeta se lo proponeva come fine, e non aggiungo, principale; perchè principale fine del Poeta è veramente questo: fare poesia. Ma dopo questo, Dante adunque si proponeva un fine d’ammaestramento; e di quante e quali specie, non occorre dire; ma che esso avesse a essere ‛vitale’, dice da sè. Ora, come avrebbe egli cinto d’alte mura un fonte di vita? Sperare dunque che libera sia a quello la via, a chi la trovi, è ragionevole. E per trovarla, egli dice che bisogna seguir lui e non perderlo di vista o di udito, e sforzarsi di passare oltre il velo della parola, e dal di fuori entrare nel di dentro. Ebbene: io ricordo che in fine quegli che dà tali ammonimenti e consigli, è, in certo modo, un Dante diverso da quello che prima segue Virgilio e poi Beatrice; è bensì lui, ma esce in quel momento dalla mirabile finzione del suo canto e richiama su essa l’attenzione nostra: non è più l’attore, ma l’autore, che parla. Ora io credo che a noi convenga, per intendere il poema, seguire appunto l’attore, il Dante che figura come ammaestrato e guidato e illuminato continuamente e a mano a mano; prima da Virgilio, poi da Beatrice, e qua e là impara da tutti e da tutto; e finge, per mostrare agli altri come possano condurvisi, di essere tratto esso ‛di servo... a libertate’. Da questa parte di Dante io penso che come è naturale che derivi non piccola oscurità, perchè l’autore, fingendo che l’attore sia ammaestrato nella verità via via, non può dire la verità, quale è, d’un tratto; così è sperabile che a noi venga la luce, se non presumeremo di precedere Dante stesso e di veder più di quello che egli stesso dice di aver veduto.
V.
Egli non è lo scolare, che narrando come imparasse, chiarisca gli stadii del suo tirocinio con la luce, che solo al termine della lunga disciplina glielo illustrò; ma il discente, che volendo che gli altri imparino come esso, non nasconde il suo graduale passare dall’ignoranza alla scienza. Non è quel pellegrino che narra il suo viaggio come chi, dopo lungo incerto errare nell’ombra e nella penombra vide poi chiara a giorno fatto la via non veduta bene quando la percorreva nella notte e all’alba, e la descrive altrui quale la scorse al sole e non quale la intravide al buio o nella caligine; ma come chi guidando per un cammino già trito da lui un altro uomo nuovo di quello, voglia lasciargli provare tutti i dubbi e gli sconforti della via, per non menomargli la gioia del giungere, dopo aver brancolato; cioè di scoprire, dopo aver ignorato. Egli si mostra sin da principio, scolare diffidente e pellegrino timoroso. L’esito del viaggio e dell’insegnamento non fa sì che egli, nel raccontare, ci nasconda tale timore e diffidenza.
Dante s’abbandona subito del venire, dove Virgilio gli ha detto di menarlo, solo per fuggire il male della lupa, e ‛peggio’; ma appena mosso con lui, disvuol ciò che volle, e Virgilio, per guarirlo della sua viltate e della sua tema (il linguaggio di Dante avrebbe fatto solo credere a una ispirazione di modestia), gli narra perchè venne, minutamente riferendogli non solo che ne fu pregato da Beatrice, ma che Beatrice fu mossa da Lucia e Lucia dalla Donna Gentile:
Dunque che è? perchè, perchè ristai?
Perchè tanta viltà nel core allette?
Perchè ardire e franchezza non hai?
Poscia che tai tre donne benedette
Curan di te nella corte del cielo,
E il mio parlar tanto ben t’impromette?[9]
La virtù stanca di Dante si rinvigorisce, l’ardire gli corre al cuore; ma è solo la menzione delle tre donne benedette che lo fa tornare nel suo primo proposito. O non bastava dunque il ‛parlare’ di quello che di lì a poco egli chiama duca, signore e maestro? No: non bastava più, appena Dante fu libero del pericolo imminente. E perchè? pare che il perchè sia incluso nella preghiera volta al poeta:
Poeta, io ti richieggio
Per quello Dio, che tu non conoscesti.[10]
Dante medita, certo, il fatto, che quegli che gli si offre a salvatore, non conobbe il vero Iddio; sa però che egli è (mi si perdoni l’espressione) l’Evangelista degli atti di Enea e delle geste di Roma, e ha narrato della discesa di Enea. Ma diffida, diffida:
Tu dici, che di Silvio lo parente,
Corruttibile ancora, ad immortale
Secolo andò, e fu sensibilmente.[11]
Con quanto maggiore asseveranza dice continuando:
Andovvi poi lo Vas d’elezione![12]
Nell’effetto di questi due straordinari fatti Dante trova motivo a crederli come giustificati così veri; e chi conosce il poeta, sa che l’effetto del primo non doveva parergli minore del secondo: tuttavia, nella sua finzione poetica, non mostra certo con la frase attenuata ‛Non pare indegno ad uomo d’intelletto’ e con la parentesi ‛A voler dir lo vero’, quella sicurezza che ha dicendo:
Per recarne conforto a quella fede
Ch’è principio alla via di salvazione.[13]
Nè sfugga che dopo il primo grido ‛Per quello Iddio che tu non conoscesti’, ora che parla dietro la meditazione della paura e del dubbio, non pronunzia più il proprio nome di Dio, ma circoscrive o accenna: ‛l’avversario d’ogni male’, ‛altri’. Però, alle ‛parole’ di Virgilio, ora che echeggiano altre ‛vere parole’, crede più che al ‛parlare’ di prima; e ogni dubbio o timore è svanito. Per sempre? Tutt’altro. ‛Sospetto’ e ‛viltà’ mostra subito all’ingresso dell’inferno, e ha bisogno del ‛lieto volto’ del maestro per riconfortarsi. Ma il volto non è sempre lieto; basta che diventi smorto per pietà, perchè Dante (che noi vediamo sempre fisso nel duca) esiti a scendere:
Come verrò, se tu paventi
Che suoli al mio dubbiare esser conforto?[14]
La persuasione dunque ispiratagli dalle parole di Virgilio, le quali sono eco delle parole di Beatrice, non dura salda e immutabile e ha bisogno di sempre nuove conferme.
E nel secondo cerchio ha subito di che alimentare la sua coperta diffidenza, nelle parole di Minos:
Guarda com’entri, e di cui tu ti fide;[15]
se non che il Maestro è pronto a ribattere la insinuazione, come diremmo noi, del giudice infernale. Nè può, nel terzo, incorarlo il notare che il gran vermo mostra le sanne, non a lui solo, ma a tutti e due:
Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
Le bocche aperse, e mostrocci le sanne.[16]
Se avesse compreso che solo esso era il minacciato e non Virgilio, avrebbe creduto di avere in lui un ausiliatore sicuro; ma Virgilio era con lui accomunato nel pericolo. Vero è che anche questa volta il Maestro è pronto, non con le parole più, ma con le pugna piene di terra. Nel quarto cerchio il timore di Dante ha tempo di manifestarsi, alla voce chioccia di Pluto; chè il Maestro gli si