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La Vita Italiana nel Settecento: Conferenze tenute a Firenze nel 1895


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Era però serbata ad un piccolo villaggio posto fra Udine e Passeriano, questa gloria d'Erostrato, di consumare il sacrificio del più antico Stato indipendente che esistesse in Europa. Da Leoben a Campoformio le trattative furono ancora molte, ma l'implacabile disegno di Bonaparte trionfò d'ogni esitazione; e poichè i plenipotenziarii austriaci stavano sul tirato, egli ruppe loro sul viso un candelabro, per dimostrare la superiorità della sua diplomazia.

      Convinti da questo argomento, i plenipotenziari firmarono il trattato di Campoformio, mediante il quale l'Austria acconsentiva a lasciare estendersi la Cisalpina fino alla riva dell'Adige, e otteneva in cambio il cadavere vivo della Repubblica di Venezia.

      È doloroso dover dire che nessuna grande inspirazione di virtù o di valore eruppe allora dagli ultimi consigli della morente Repubblica. Il Vallaresso e i suoi colleghi si ostinarono fino all'ultimo giorno nella loro politica di rassegnazione agli eventi; il generale Condulmer affermava l'impossibilità di difendere la laguna; Lodovico Manin si rammaricava di non poter neanche dormire la notte nel proprio letto. Tanto era diverso da un successivo Manin l'animo e l'ingegno dell'ultimo Doge della Repubblica!

      Il 16 maggio 1797 il Senato faceva annunciare che il Governo cedeva i suoi poteri al Municipio. E il giorno dopo, il generale Baraguay-d'Hilliers occupava con quattromila francesi la piazza di San Marco. Erano i primi soldati stranieri che da quattordici secoli Venezia avesse veduti!

      Questa fu l'opera del generale Bonaparte; che iniziava così quella politica di disprezzo delle nazioni e di mercato di popoli, a cui ubbidì in tutto il corso della sua meravigliosa dominazione.

      So che la leggenda napoleonica trova degli evocatori anche in Italia, e degli evocatori dominati da simpatia. A questi io non posso unirmi. Ammiro il genio dell'uomo, come si ammira un vulcano in eruzione. Ma non posso avere nessuna simpatia pel despota, che, avendo nelle sue mani l'Italia, ha venduto la Repubblica di Venezia e ha fatto di Roma un dipartimento francese.

      Non sempre dalle pagine storiche si possono trarre delle formole educative. Questa volta, penso, si può.

      Il secolo nostro vedeva, al suo cominciare, radiati dalla carta politica dell'Italia due Stati, una repubblica e un principato. Settant'anni dopo, quella repubblica appariva, negli animi, più morta che mai; quel principato era divenuto, per affetto di popoli e per virtù di casi, il regno d'Italia.

      Vuol dire, se non erro, che dalle catastrofi difficilmente risorgono i governi, quando ubbidiscono soltanto ad un programma cieco ed egoista di conservazione, come quello che prevaleva negli ultimi tempi della Repubblica di Venezia. Vuol dire che, malgrado le catastrofi, hanno avvenire splendido e sicuro quegli Stati, quei governi, quelle dinastie, che fondano il loro diritto di conservazione sopra un ideale, sia di completamenti nazionali, sia di progressi morali.

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      CONFERENZA

      DI

      Isidoro Del Lungo.

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      Il pugnale di Lorenzino de' Medici, il cui sinistro bagliore rompeva la penombra lusingatrice all'ultima fra le turpi notti del ducale cugino Alessandro, non poteva rendere la libertà a Firenze. Quel giovinastro malinconico e motteggiatore sognava, così almeno lasciò scritto in pagine di frase eloquente, e come del resto gli altri regicidi di quella età paganeggiante, sognava Bruto e l'opera sua: ma la voce di Bruto è ascoltata ed efficace, quando si leva presso al cadavere d'una sposa intemerata, non voluta sopravvivere a sè medesima, frementi attorno cittadini che nella violazione del sacrario domestico sentono offesa la santità della convivenza civile; si disperde e muore sulla pianura scellerata di Filippi, quando, divenuta nome vano la virtù, il grido di libertà non è più l'eco della coscienza cittadina, e l'amor della patria non arma che il braccio d'un gruppo di congiurati. E poi, Lorenzino non era un Bruto autentico. Rampollato da uno de' minori rami Medicei, del quale accoglieva in sè l'ultimo fiato e le mancate ambizioni, aveva rimuginati nell'animo culto e pervertito quei medesimi elementi del classico Rinascimento, in mezzo alla cui acre fermentazione si era trasformata la Firenze repubblicana; e come pel ramo dominante, si venne in Cosimo vecchio, nel magnifico Lorenzo, in Lorenzo duca d'Urbino, elaborando il Cesare liberticida, così in questo diseredato, alle fattezze sue vere, che erano di un Medici inviso a Medici e invidente, si era sovrapposta la larva, non altro che la larva, di Bruto. Quando poi, spinta da cotesto uomo, giunse l'ora, Firenze, che non aveva più popolo dal giorno in cui l'Impero e la Chiesa le ebber dato un Senato, Firenze, da quei senatori — uno de' quali si chiamava pur troppo Francesco Guicciardini, il Tacito mancato alla storia della destinata servitù — avea docilmente ricevuto in un giovinetto di diciotto anni il suo Cesare.

      Cesare, il duca Cosimo, per modo di dire; ma veramente, un proconsolo del vero Cesare ispano-austriaco, alle cui mani diventava cosa l'utopia romana medievale del Santo Impero. All'ombra di questo, i Signori insediatisi per vario modo sulle rovine del Comune, esercitavano, vicarî coronati, un principato, che, illegittimo d'origine, perchè nato di violenza o di frode contro le libertà popolari, riceveva degna sanzione nella investitura segnata dalla mano di un monarca, che di romano e d'italico non aveva se non il nome, poichè nel fatto era il continuatore della oppressione barbarica sul gentil sangue latino.

      Se non che i principati paesani, qualunque essi si fossero, ebbero questo di buono: che salvarono le rispettive regioni italiche dal giogo obbrobrioso dei Vicerè, sotto il quale Milano e Napoli, Sicilia e Sardegna, patirono sulla viva carne il solco profondo e sanguinoso della servitù straniera. Chiamiamoli pure proconsolati; ma codesta loro condizione ne assicurava l'esistenza, ai termini di quel diritto pubblico imperiale, che, dalla Dieta di Roncaglia per la bolla d'oro di Carlo IV sino alla prammatica sanzione di Carlo VI, sovrastò, senza del resto poterlo dominare, allo svolgimento politico di quasi sei secoli della vita civile italiana; mentre nell'esercizio effettivo della sovranità, nelle relazioni coi cittadini divenuti suo popolo, il principe poteva, se volesse, e tanto quanto volesse, rimanere cittadino. Il che ai Medici era fatto poi quasi naturale dalle tradizioni del tutto cittadinesche della loro ambizione e grandezza: originata dal lavoro dei commerci fortunati; e solidatasi genialmente col favore e la cooperazione alle manifestazioni dell'ingegno; sempre, dunque, in termini di civile convivenza, o, come con bella parola nel Quattro e Cinquecento dicevasi, di civiltà; che la fortuna del triregno (con Leone e Clemente) aveva non altro che amplificati. Ben diversi dai Gonzaga o dagli Este, venuti su di sangue feudale, e mediante l'abuso violento, mercanteggiato con l'Impero, dei magistrati municipali; ben diversi dai Farnesi, creature papali avventizie; i Medici, se la usurpazione, sia violenta, sia artificiosa, della comune libertà, potesse essere legittimata mai, avrebbero avuto al principato titoli legittimi; ne avevano certamente di gloriosi.

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      Tale eredità raccoglieva Cosimo duca: bensì non come successione pacifica; non come il magnifico Lorenzo potè sognare, se la vita gli fosse bastata, di trasmettere quella sua indefinita, non però meno effettiva, autorità ai suoi discendenti; invece, una successione viziata di tante eccezioni, quante venivano ad essere inchiuse in quest'ordine di fatti: la cacciata del 1494 e successivi diciotto anni di governo popolare, la restaurazione del 1512 violenta, la cacciata ultima del 27, l'assedio, la permanente ribellione dei fuorusciti, fra' quali ora riparava festeggiato l'uccisore del tiranno. Ma questo Cosimo giovinetto aveva avuto per padre Giovanni, il prode capitano delle Bande Nere, che la milizia italiana rimpiangeva tuttora; e per madre ed educatrice quella valente Maria Salviati, che accoglieva nell'animo, congiunti in salda tempera, gli spiriti di una popolana baldanzosa e d'una imperiosa matrona; degna e caratteristica madre di quello fra i Medici, sul capo del quale la popolare supremazia della predestinata famiglia doveva divenire principato e fregiarsi della corona granducale.