in nessun luogo, dando soltanto un’occhiata alla cassaforte.
«E adesso, andiamo,» disse.
Quando furono sul portone, guardò di nuovo l’ora: quasi le tre, erano.
«Prendiamo il tranvai,» annunciò. «Voglio arrivare alle tre e mezzo e non prima.»
Alle tre e mezzo, entrò nell’appartamento di Aurigi.
In anticamera trovò l’agente.
«Nulla di nuovo?»
«Nulla,» e l’agente gli si avvicinò, per fargli il resoconto di quelle ore.
Aurigi non aveva mangiato. Era rimasto sempre in salotto, là dove il commissario lo aveva lasciato.
«Non s’è neppure mosso!» disse l’uomo.
«E l’altro?»
«In cucina o nella sua stanza… Ha voluto offrirmi da mangiare. Mi sembra tranquillo. Cortese, ad ogni modo, lo è di certo.»
«Già,» fece De Vincenzi.
Ed entrò in salotto.
Salutò Giannetto, ostentando allegria.
«Bella giornata, oggi! Dopo il nebbione della notte, c’è il sole.»
Aurigi fece con ironia:
«È naturale. Dopo la nebbia, c’è sempre il bel tempo.»
Parlava per parlare. S’era alzato. Non gli chiedeva neppure quel che avesse fatto, se fosse sicuro di scoprire l’assassino. Sembrava che il delitto non fosse neppure avvenuto per lui, che tutto quel che poteva accadere non lo riguardasse.
De Vincenzi aveva lasciata la porta d’ingresso aperta e vide Cruni, che introduceva nel salotto il conte Marchionni e Maria Giovanna.
La giovane era vestita come alla mattina. Guardò De Vincenzi con occhi smarriti.
Il conte aveva ritrovata la sua sicurezza: era altero e corretto, gran signore che si reca a fare una visita di dovere.
S’inchinò col capo al commissario.
«Eccoci qui,» disse e aveva l’aria di chiedergli, come a un dipendente: «Che cosa ha fatto? Che cosa intende fare?»
De Vincenzi per tutta risposta, indicò a lui e alla contessina il divano:
«Seggano, prego.»
Andò alla porta del salotto e chiamò Cruni. Gli sussurrò qualche parola all’orecchio e il brigadiere si affrettò ad uscire.
Poi De Vincenzi ordinò all’altro agente:
«Andate sul pianerottolo e chiudete l’uscio. Aspettate il giudice e, quando sarà entrato, recatevi giù in portineria con Cruni. Il brigadiere sa quel che dovete fare…»
L’agente chinò il capo:
«Sta bene, dottore.»
E se ne andò anche lui.
Adesso, l’anticamera era deserta. De Vincenzi diede un’occhiata alla camera del domestico, che aveva la porta aperta, e vide Giacomo accanto al letto, che leggeva.
Allora, chiuse la porta del salotto ed estratta di tasca la rivoltella, che aveva tolta al cameriere, la mostrò ad Aurigi.
«Conosci questa rivoltella?»
Giannetto non esitò:
«È la mia… Doveva trovarsi nel cassetto di quel mobile… Non la tocco da anni…»
«Va bene…» fece il commissario e si rimise la rivoltella in tasca. Trasse poi l’altra, che aveva trovata nel cassetto:
«E questa?»
Aurigi spalancò gli occhi. Quella non l’aveva mai veduta.
«Questa,» disse con forza De Vincenzi «è la rivoltella, che ha ucciso Garlini. Il perito di balistica me lo ha confermato…»
Ravvolse l’arma in un fazzoletto la depose sul tavolo.
Gli altri lo guardavano agire. Lui fece una pausa lunga. Ebbe una breve titubanza, poi andò in un angolo della stanza, dove aveva veduto un campanello, e suonò.
Dopo appena qualche secondo, quasi fosse stato dietro la porta, pronto a quella chiamata, l’uscio si spalancò e comparve Giacomo.
Il volto glabro del cameriere era impassibile, ma un osservatore attento avrebbe notato nelle sue pupille uno strano bagliore, che poteva essere di curiosità, come d’inconfessata apprensione.
De Vincenzi lo fissò un istante, poi gli disse:
«Volete portarmi un bicchiere d’acqua?»
Il cameriere s’inchinò e andò in cucina.
Allora, il commissario si diresse all’uscio d’ingresso e, apertolo, chiamò l’agente che si trovava sul pianerottolo.
«Venite qui… voi.»
Lo fece entrare nella sala da pranzo e gl’indicò la rivoltella ravvolta nel fazzoletto.
«Prendete quella rivoltella… Ma state bene attento di non togliere il fazzoletto e di non toccarla…»
Si teneva presso il tavolo e parlava lentamente. Quando l’agente tese la mano per prendere l’arma, fece un breve gesto per fermarlo.
«Aspettate… Debbo dirvi qualche altra cosa… Darvi altre istruzioni…»
Cercava guadagnar tempo e, soltanto quando sentì che Giacomo gli era dietro, si volse di colpo e prese con precauzione, toccandolo con due dita, il bicchiere, che il cameriere recava sopra un piatto. Vuotò rapidamente l’acqua in un vaso da fiori, che si trovava sul tavolo e, toltosi un altro fazzoletto dal taschino della giacca, ne ravvolse il bicchiere e lo porse all’agente:
«E prendete questo…»
La voce gli si era fatta dura:
«Tanto sulla rivoltella quanto sul bicchiere vi sono impronte digitali. Andate subito al Gabinetto di Polizia Scientifica e fatemele rilevare… Ma presto! Tra un’ora voglio le fotografie.»
L’agente, con quei due fazzoletti bianchi nelle mani, uscì rapidamente.
Il volto di Giacomo si era fatto pallido. Ma nessun turbamento era visibile in lui. Piuttosto una certa insolenza ed un leggero sarcasmo. Tese la destra aperta verso De Vincenzi:
«Vuol prendere le mie impronte?»
Il commissario gli diede un’occhiata e trasse dalla tasca un foglio di carta bianca.
«Fate vedere,» ordinò con voce secca, mettendo il foglio sul tavolo.
Giacomo sorrise largamente e, tese la mano aperta, premette i cinque polpastrelli delle dita sulla carta. Si fermò in quel gesto, quasi per sfida. Fissava il commissario.
De Vincenzi lo osservava e gli chiese:
«Come vi chiamate, realmente, voi?»
L’altro alzò le spalle:
«Giacomo Macchi.»
«Lo saprò tra poco il vostro vero nome. Non è questo! Sotto questo nome non figurate negli archivi della Polizia e voi siete troppo pratico del modo con cui si prendono le impronte digitali, per non avere un passato infamante… Da quanto tempo siete in questa casa?»
«Gliel’ho detto… Due anni…»
«E prima?»
Il cameriere accentuò la sua insolenza:
«Ho portato i benserviti… Del resto, lo chieda al signore…»
Indicò Aurigi che lo guardava.
«Lui era contento di me. Non gli