Edmondo De Amicis

La vita militare: bozzetti


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a ribeversi le lagrime per non parer fiacco e sdolcinato. Correva fra loro un linguaggio costantemente laconico, rapido, rotto; si capivano a monosillabi, a occhiate, a gesti: interprete comune l'orologio, che regolava tutto, anco i passi e le parole, colla più stretta disciplina.—Tenente, comanda altro?—Nulla.—Posso andare?—Va.—Era la formola quotidiana di comiato; mai una parola di più. E così erano passati i giorni, i mesi, gli anni—quattro anni—in quartiere, in casa, in campo, in marcia, in guerra, ed era a poco a poco cresciuto nel cuor di entrambi un affetto profondo, severo, e quasi sconosciuto a sè stesso. V'era in quella inalterabile taciturnità, in quel parlar soldatesco, in quel ricambiarsi fuggitivo di sguardi che volean dire, l'uno—fa questo,—e l'altro—ho capito; v'era dico, per chi avesse conosciuta la natura di entrambi, tanta cortesia, tanta amorevolezza, tanto cuore, che al confronto la più espansiva corrispondenza di tenerezze ne avrebbe scapitato.

      Si erano trovati a fianco sul campo in momenti solenni, a poche centinaia di passi dai cannoni nemici, e, ad ogni sibilar di granata, l'uno avea girato rapidamente gli occhi in cerca dell'altro, e, trovatolo, avea messo un sospiro, pensando:—Anche questa è passata.—Aveano vegliato assieme agli avamposti più di una notte gelida e piovosa, coi piedi nel pantano e il vento sulla faccia; e il mattino, al giunger del battaglione di muta, s'erano scambiati un sorriso, come per dirsi a vicenda:—Ora si ritorna al campo; rallegrati; potrai riposare.—Molte volte, durante una lunga marcia d'estate, s'erano tutti e due ad un tempo voltati in dietro a riguardare le pietre miliari sulla proda della via, e molte volte, ne avean contate meglio di quaranta, scambiandosi, quand'eran giunti all'ultime, uno sguardo di conforto e di compiacenza che volea dire:—Ancora due,—ancora una,—ci siamo.—Più di una sera, nei campi, quando si prepara l'animo alle fucilate che ci verranno a svegliare la notte, dopo che l'un d'essi si era adagiato sotto la tenda e l'altro gli aveva disteso ed accomodato addosso il pastrano per difenderlo dalle brezze notturne,—buona notte, signor tenente,—aveva detto il soldato allontanandosi, e al tenente era parso che quella voce avesse lievemente tremato e l'ultima parola non fosse uscita intera, e con pari accento gli aveva rimandato il saluto. Qualche altra volta, mentre l'uno porgeva all'altro una lettera e questi stendeva avidamente la mano per prenderla, era passato sui due volti un leggerissimo sorriso.—È una lettera di casa; ne riconobbi i caratteri; è tua madre—l'uno avea voluto dire;—grazie, l'altro aveva voluto rispondere, tu mi hai anticipato la gioia.—

      Dopo tutto ciò ritornavano entrambi ai soliti modi taciturni e severi. Nè mai una volta il fiero soldato, o presentandosi al suo uffiziale, o pigliandone comiato, dimenticava di fissargli gli occhi in faccia, alzando la testa, portando energicamente la mano al cheppì, ritto, immobile e fiero. Partendo, il suo fronte indietro era sempre fatto a norma del regolamento.

      Vivevano assieme da soli quattro anni; ma il soldato, che aveva cominciato a far l'ordinanza dopo il primo anno di servizio, stava per compiere la sua ferma.

      Un giorno giunse al comandante del corpo l'ordine di congedar la sua classe.

      Quel giorno, fra l'uffiziale e il soldato passarono poche parole più del consueto; ma i due cuori si favellarono lungamente.—Comanda altro?—Nulla.... È giunto l'ordine di congedare la tua classe; fra dieci giorni tu partirai.

      Seguì un breve silenzio senza che i loro occhi s'incontrassero....—Posso andare?—Va pure.—Questa volta si era aggiunto un pure, ed era già un gran passo sulla via delle tenerezze.

      Si strinse il cuore ad entrambi; non però ad entrambi ugualmente. L'uno perdeva un amico, anzi, più che un amico, un fratello, che l'amava d'un affetto reverente, religioso. L'altro perdeva del pari un amico, un fratello; ma quegli restava, questi tornava a casa. E ciò gli era un grande sollievo. Tornare a casa! Dopo tanti anni, dopo tanti pericoli, dopo aver tante volte la sera, nel campo, quando squillano le lunghe e melanconiche note del silenzio, e sotto le tende muoiono i lumicini, e in tutta quella mobile città di tela, poc'anzi così animata ed allegra, si sparge una quiete profonda; dopo aver tante volte, in quei momenti di scorata malinconia, chinato la testa fra le mani pensando alla madre e domandandosi:—Che farà in questo momento quella povera donna?—tornare a casa! Dopo aver tante volte, sul far della notte, al bivacco, udito qua e là fra i crocchi dei compaesani suonare i noti ritornelli campestri, quei che si cantavano un giorno laggiù, a casa, in estate, quando si vegliava sull'aia e vi batteva quel bellissimo lume di luna, e, fra le tante voci degli amici e dei congiunti, se ne sentiva una distinta, chiara, argentina, tremola, che sapeva così bene le vie del cuore; dopo aver tante volte benedetto quei canti come un saluto di nostra madre lontana.... tornare! Tornare inaspettato! Rivedere quella campagna, quei casali; riconoscere da lontano quel tetto, studiare il passo, giungere trafelati su quella cara aiuola, vedersi comparir dinanzi la sorellina fatta adulta, il fratello più piccolo ormai adolescente, alle loro grida sopraggiungere tutti gli altri, lanciarsi in mezzo a loro, poi svincolarsi da tutti, correre in casa, chiamare la vecchia madre, vedersela venire incontro colle braccia aperte e gli occhi pieni di lagrime, gettarsele al collo e sentirsi stretto da quelle care braccia e provar tutte le più sante estasi umane, le son cose che, anche a pensarle soltanto, addolciscono qualunque amarezza, sanano qualunque ferita.

      Pur non di meno a quel buon giovanotto passava l'anima il pensiero di aversi a separare dal suo uffiziale. E poi un soldato di cuore non si spoglia mai del ruvido cappotto che gli ha servito per tanti anni da coperta e da guanciale, e su cui egli ha fatto tanto lavoro di spazzola, d'ago e di sapone, senza sentirsi dentro un certo struggimento, una certa tenerezza dispettosa ed inquieta, come al separarsi da un amico che ce ne ha fatta qualcuna delle grosse e con cui si vorrebbe tener il broncio, ma che in fondo si è sempre stimato ed amato. Quelle tasche di dietro, dove in prigione si nascondeva la pipa all'apparire dell'uffiziale di picchetto, di tanto in tanto, per isbaglio, e fin che non se ne sia affatto smessa l'abitudine, si cercheranno ancora colle mani.... Che stizza non trovarle più!

      Il buon uffiziale s'era fatto pensieroso, e non aveva più aggiunto una parola alle formole consuete. E così il suo soldato. Ma i loro sguardi s'incontravano più frequenti e più lunghi, e pareva che si dicessero:—Tu soffri, lo so.—Il soldato faceva le sue cose più adagio per trattenersi più a lungo in casa e compensarsi, in quegli ultimi giorni, della separazione imminente. Dapprima procedeva con una certa lentezza; poi con lentezza apertamente studiata; da ultimo faceva le viste di levar via la polvere dai tavolini e dalle sedie; ma il più delle volte, assorto nel suo triste pensiero, agitava ciecamente la pezzuola senza nulla toccare. Intanto l'uffiziale ritto ed immobile colle braccia incrociate davanti allo specchio, che rifletteva l'immagine del suo soldato, ne seguiva attentamente i passi, gli atti, i moti del viso, e ne scansava gli sguardi alzando prontamente la faccia e gli occhi al soffitto in aria distratta.—Tenente, posso andare?—Va pure.—E il soldato se ne andava. Non aveva ancora sceso due scalini che dentro la stanza suonava un frettoloso:—vieni qua—ed egli tornava.—Comanda altro?—Niente. Voleva dirti.... niente, niente; lo farai domani; va pure.—E forse l'aveva richiamato per vederlo, e, vedutolo un'altra volta partire, continuava a tener per qualche tempo gli occhi fissi al limitare della porta da cui era uscito.

      Venne finalmente il giorno della partenza. L'ufficiale stava seduto in casa, al tavolino, dirimpetto alla porta socchiusa. Di lì a mezz'ora il suo soldato doveva venire a pigliare comiato da lui, e partire. Egli fumava soffiando in alto i nuvoli del fumo, e ne seguiva sbadatamente coll'occhio il viaggio lento e vorticoso fin che si dileguavano nell'aria. Il fumo che gli passava sugli occhi glieli facea lagrimare, ed egli a quando a quando se li asciugava col rovescio della mano, pur maravigliandosi che le lacrime venissero giù così grosse da parer ch'ei piangesse. Ne attribuiva tutta la causa al fumo, voleva illudersi sulla sua commozione, dissimularla a sè stesso, attribuire al sigaro ciò che spettava al cuore. E pensava:—....Già, c'era da aspettarselo. Dunque, a che serve pigliarsela a cuore? Non lo sapeva io, quando l'ho preso con me, che non l'avrei tenuto eternamente? Non lo sapeva che la ferma è di cinque anni? E che quest'uomo ha una casa, un campo, una famiglia, dove è nato, dove è cresciuto, da cui è partito con dolore e a cui ritornerà con gioia? Pretenderei che continuasse a fare il soldato per la mia bella faccia? Sarei un egoista.... Anzi lo sono. Qual vincolo di gratitudine lo lega a me? Che cosa gli ho fatto io? Che cosa mi deve costui?... Oh molto, davvero. Non gli ho mai fatto che delle sgarbatezze, io. Gli sto sempre lì davanti con questo maladetto muso da padre inquisitore....