la domanda nasce spontanea: quanto sono affidabili le valutazioni sul morbo di Parkinson?
Uno studio condotto congiuntamente da vari centri di ricerca in Argentina, Colombia, Cile, Cuba, Ecuador, Spagna, Inghilterra e Messico ha cercato di dare la risposta.
Lo studio ha incluso 384 adulti di età compresa tra i 22 e 91 anni di cui il 44,5% donne, ai quali era stato diagnosticato il morbo di Parkinson senza ulteriori psicopatologie associate.
Tutti loro sono stati sottoposti a quattro test per determinare il livello di gravità della malattia di Parkinson: l’Hoehn e Yahr Scale; il Clinical Impression of Severity Index for Parkinsons Disease; il Clinical Global Impression-Severity e il Patient Global Impression-Severity; per la valutazione del livello di indipendenza sono stati usati il Schwab and England Scale ed il Barthel Index; per valutare lo stato d’animo dominante nel paziente è stato usato l’Hospital Anxiety and Depression Scale; per la valutazione dei livelli generici di salute clinica ed economica si è ricorso al E.Q-5D.-3L; e per valutare la presenza di sintomi riconducibili al Parkinson è stato usato il Parkinsons Disease Questionnaire-39.
Le analisi dei dati rilasciati dai test, hanno riportato le seguenti relazioni: 0.60 tra i risultati dei test della Hoehn e Yahr Scale e il Patient Global Impression-Severity; 0.91 tra il Clinical Global Impression-Severity, il Patient Global Impression-Severity ed il Clinical Impression of Severity Index for Parkinsons Disease che sono correlati alla presenza di sintomi di depressione e ansietà.
Tutti i test hanno rilasciato dati attendibili, di conseguenza non si può scegliere un unico test su tutti ed escludere gli altri poiché ognuno valuta diversi aspetti dell’evoluzione e della gravità del morbo di Parkinson.
I risultati mostrano chiaramente come le attuali procedure standardizzate siano corrette e la valutazione della gravità dei sintomi deve essere accompagnata anche dalla valutazione delle esperienze emotive e del grado di indipendenza percepito dal paziente.
Tra le varie scale di classificazione e test disponibili precedentemente citati, la più utilizzata è solitamente la Hoehn Stage Scale e la Yahr Scale (scala di Hoehn e Yahr), mediante le quali i pazienti possono essere classificati in cinque fasi in base ai loro sintomi, ognuna più grave dell’ anteriore, in modo tale che nel primo stadio siano mostrati sintomi lievi come tremori alle mani o cambiamenti posturali o dell’andatura; mentre nel quinto ed ultimo stadio il paziente subisce con la massima gravità i sintomi del morbo di Parkinson: totale invalidità, impossibilità di stare in piedi o poter camminare, dipendendo completamente da un’altra persona per ogni cosa.
Pertanto, utilizzando la scala di Hoehn e Yahr, si può classificare la gravità dei sintomi del morbo di Parkinson nelle seguenti fasi o stadi:
- Stadio 0: assenza di sintomi visibili della patologia.
- Stadio 1: lieve tremore monolaterale degli arti superiori.
- Stadio 2: tremore bilaterale che il paziente “compensa” modificando postura e andamento.
- Stadio 3: rallentamento psico-motorio, problemi di deambulazione ed equilibrio.
- Stadio 4: inabilità muscolare, il paziente ha bisogno di aiuto per riuscire a stare in piedi.
Infine, nello Stadio 5, il più grave, l’inabilità del paziente è tale da non essere in grado di stare in piedi.
Bisogna tenere presente che il passaggio da una fase all’altra non è costituito solamente dall’ aggravarsi dei sintomi esistenti, ma anche dalla comparsa di sintomi nuovi che non si erano precedentemente manifestati, i quali condurranno il paziente alla perdita dell’indipendenza e al deterioramento del tenore di vita.
Il morbo di Parkinson è una malattia neurodegenerativa. Ciò significa che i suoi effetti sul paziente peggioreranno progressivamente con il passare del tempo, progredendo dai primi sintomi della fase I, mostrando lievi tremori in una sola parte del corpo, trascinando un po’ i piedi, cominciando a mostrare i primi sintomi di rigidità.
Nella fase II la persona inizia a piegarsi in avanti, con disturbi dell’equilibrio e difficoltà nei movimenti (bradicinesia).
Nelle fasi III e IV i sintomi peggiorano e il paziente ha gravi difficoltà di equilibrio e deambulazione.
Fino ad arrivare alla fase V, quando il paziente dipende in tutto e per tutto da un’altra persona e costretto a passare la maggior parte del tempo seduto o a letto a causa del tremore costante.
L’assistenza al paziente affetto da Parkinson avanzato: il ruolo del caregiver
Quando si parla di assistenza al paziente ci si riferisce all’azione che svolge quella persona (in genere un familiare di riferimento) che si fa carico di ogni vicissitudine del paziente. Quando l’assistenza è svolta in chiave professionale, si parla di assistente familiare o badante; quando avviene a titolo non professionale o gratuito si parla di caregiver o caregiver familiare2.
Sebbene ogni caregiver abbia le sue ragioni che lo spingono a dedicarsi all’assistenza, queste ragioni sono oggetto di analisi da parte dei ricercatori, i quali cercano di spiegare i motivi per cui una persona dovrebbe decidere di occuparsi dell’assistenza informale di un parente, specie nei casi più gravi come quelli dei pazienti affetti da demenza.
Si deve considerare il fatto che le malattie neurodegenerative sono generalmente irreversibili; le funzioni cognitive, muscolari e scheletriche andranno progressivamente perse, e tanto pazienti giovani quanto anziani sono esposti a questa possibilità.
A volte gli altri membri della famiglia potrebbero confondere i sintomi della malattia con un processo di invecchiamento “naturale” e quindi associare la perdita delle funzioni corporali e delle capacità mentali con l’inevitabile processo di degenerazione che ha inizio una volta superata l’età adulta.
Ci sono vari fattori che possono portare alla demenza, ad esempio la presenza di una patologia preesistente come la malattia di Huntington, la sclerosi multipla, il Parkinson, lesioni alla testa, tumori cerebrali o il consumo eccessivo di bevande alcoliche.
A prescindere dalle cause, trattandosi di un processo degenerativo e irreversibile, è naturale che i membri della famiglia comincino a ragionare su come prendersi cura del paziente, che sia con l’aiuto di un badante professionista o mediante l’assistenza a gestione familiare, cioè di una o più persone che a turno si prendono cura del paziente, essendo disposti a sacrificare il “proprio io”, rinunciando a gran parte delle loro attività sociali e, naturalmente, al lavoro a tempo pieno, per dedicarsi ad un’assistenza “intensiva” del paziente affetto da demenza.
Fin qui, sembra di capire che la scelta tra un’assistenza professionale o familiare sia più che altro una questione economica, in cui la famiglia dopo aver “fatto bene i conti” decide se può permettersi di sostenere le spese che richiede l’assistenza professionale, sia essa svolta in un centro specializzato, o da personale esterno qualificato che si prenda cura del paziente.
Tuttavia, uno studio condotto congiuntamente dal Texas A&M Health Science Center e dalla Washington State University (USA), al quale hanno preso parte 270 parenti di un database di 1.770 pazienti di età pari o superiore a 70 anni affetti da demenza, ha dimostrato che le persone sposate tendono a prendersi cura dei propri partner indipendentemente dalla mera questione economica.
Per quanto riguarda le statistiche demografiche, coloro i quali si avvalgono maggiormente di un caregiver professionale risultano essere gli ispanici e i “bianchi”.
Un risultato sorprendente è che le questioni economiche hanno meno peso del previsto; non influiscono infatti in modo risolutivo sulla decisione finale tra cura professionale o familiare, giacché entrano in gioco altri fattori come l’altruismo del familiare che si occuperà dell’assistenza al paziente affetto da demenza.
Tutto quanto sopra non fa che confermare l’aumento dell’assistenza informale da parte dei membri della famiglia, specialmente quando esiste un legame affettivo tra paziente e caregiver, così come quando il caregiver dimostra una spiccata predisposizione