Angel Martinez

Sangue Scremato & Versi Violenti


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volta che era alla luce diretta del sole per più di una manciata di minuti. Era umiliante.

      «Ecco Junior!» La pacca sulla spalla di Carrington Sr. fu più pesante del necessario, ma lui strinse i denti e tenne duro. «Finalmente ti sei deciso a unirti alla tua festa».

      «In effetti sono qui dalle due, papà». Carrington mostrò per un attimo un accenno di zanne; non proprio una minaccia, ma sapeva che infastidiva suo padre. Come previsto, il sorriso del padre scomparve.

      «Cerca di essere civilizzato, per favore. Tua madre ha lavorato molto duro per fare questa cosa per te».

      Tu lo sai che non è per me. Io lo so. Mamma lo sa. Perché fingiamo? No, sapeva la risposta. Era la scusa del giorno per la socializzazione di potere dei suoi genitori. Da bravo figlio diligente, ci si aspettava che recitasse il suo ruolo. Più accuratamente, essendo il figlio che aveva rifiutato il dovere per vivere la propria vita, veniva regolarmente ricattato per quelle cose facendo leva sul senso di colpa. Salutò il sindaco e il commissario e gli altri lord e lady di prestigio e plutocratico valore… non male.

      Avrebbe dovuto ricordarselo. Kash avrebbe apprezzato, almeno.

      Dovette lottare per non incurvare le spalle mentre il sole lo martellava. Sta’ dritto, Ignora la nausea. Sorridi. Sorridi. Cerca di mostrare apprezzamento mentre la cugina Tiffany canta Tanti Auguri. Probabilmente quelle lezioni per la voce sono costate parecchio, dopotutto. Come, scusi? Oh, già. Il responsabile del catering gli aveva porto il coltello d’argento infiocchettato per tagliare la prima fetta. Tradizione. Cerimonia. Ondata di capogiro.

      Strinse i denti e desiderò con forza che le chiazze nere nel suo campo visivo si placassero e tornassero quando avrebbe avuto tempo per loro. Si accigliò quando una di queste, nell’angolo dell’occhio, si mosse, anche se non c’era niente quando girò la testa. Concentrati. Sorridi. Sotto lo sguardo vigile del responsabile del catering, riuscì a effettuare i due tagli per la prima modesta fetta prima di riconsegnare il coltello con mano tremante.

      «Manda», sussurrò, e lei era proprio lì, sempre vigile. Avrebbe voluto che non fosse costretta a esserlo. L’unico motivo per cui lei era presente era che Carrington era stato incoraggiato, tormentato, a portare un’ospite non maschio. E così l’aveva fatto, sebbene sua madre disprezzasse Amanda e fosse gelidamente condiscendente con lei a ogni occasione.

      Amanda gli prese il gomito e lo sostenne con discrezione mentre lo guidava verso le porte del patio. «Ce la fai?»

      «Faccio del mio meglio», mormorò lui, la schiena ancora quanto più dritta gli riuscisse di tenerla. Ogni passo gli causava fitte di dolore alla testa. Ogni respiro gli faceva desiderare di non aver fatto colazione. Una mano spietata gli strizzava il cuore mentre la sua vista andava e veniva come un film montato male.

      «Lo so, Carr. Ci siamo quasi. Biblioteca?»

      «Sì per favore. È sempre buio là dentro».

      Benedetto, benedetto buio. Riuscì ad arrivare a una delle poltrone assurdamente larghe accanto al caminetto, funzionante ma mai acceso, e affondò nei cuscini con le proprie forze, lasciando che la testa sbattesse contro lo schienale mentre si toglieva gli occhiali scuri e lasciava che i suoi occhi maltrattati si beassero della penombra. In genere le tende erano tirate lì, in modo che i tessuti e i ritratti non sbiadissero a causa del sole. Non che qualcuno leggesse davvero l’esercito di libri sugli scaffali che andavano dal pavimento al soffitto. Come il caminetto, erano per lo più per far scena.

      «Ben fatto. La tua borsa frigo è nel bagagliaio?»

      «Sì. Come sempre, sei troppo buona con me». Carrington si afflosciò sulla poltrona. Perché aveva accettato quella storia senza senso del compleanno, comunque? Sua madre avrebbe potuto inventarsi un’altra scusa per una festa in giardino. «Manda… mi dispiace».

      Amanda si fermò a metà di un passo mentre usciva dalla stanza e lo trafisse con la sua migliore occhiataccia. «Non cominciare. Se si tratta di tua madre, non sei il suo custode e non puoi fare in modo che io le piaccia. Se si tratta di avermi fatta venire qui oggi, ho mangiato molto bene. Se si tratta di nuovo di non essere il miglior vampiro del mondo e far schifo come compagno, chiudi il becco. Non farò questa discussione con te oggi».

      Lui quasi si scusò di nuovo, ma riuscì a tenere la bocca chiusa attorno alle parole. Sempre pragmatica, Amanda non gli permetteva di lamentarsi e autocommiserarsi, anche se gli avrebbero potuto far bene un pochino di lagne quel pomeriggio. La sua soluzione più pratica di andare alla sua auto per portargli una tazza da caffè termica di sangue scremato aveva più senso, ovviamente.

      Del movimento alla periferia del suo sguardo lo fece sobbalzare. Un brivido d’allarme gli percorse la pelle, del genere che spesso lo avvertiva che qualcosa di non proprio bello era nelle vicinanze. Quando si voltò verso il tavolino da salotto accanto al suo gomito, però, non c’era niente, neppure un’ape o una falena. Una lampada antica era poggiata sul tavolo, libellule colorate catturate per sempre in una vetrata di ambra, e accanto a essa vi era un libro. Strano. Qualcuno lo aveva lasciato parzialmente aperto e in piedi sulla copertina e la costola.

      Non è modo di trattare un libro. Quando allungò una mano per prenderlo, con l’intenzione di poggiarlo in piano, il formicolio paranormale si intensificò. Con un fruscio di pagine, il libro usò la copertina aperta per dondolare veloce avanti e indietro, scivolando via dalla sua mano allungata. Quello era inatteso.

      Riscuotendosi in fretta, ritrasse la mano e sussurrò: «Va tutto bene, piccolo libro. Non ti farò del male, e non ti leggerò neppure se preferisci di no. Ti serve aiuto?»

      Se il libro avesse avuto una qualche intelligenza, non sarebbe stato il primo oggetto pensante animato che avesse mai incontrato. Uno dei suo colleghi era un giubbotto di pelle dal passato dubbio con un malsano senso dell’umorismo.

      Il libro si scosse con violenza sul tavolo nell’imitazione di una step dance e delle parole stampate schizzarono fuori dalle pagine a velocità allarmante. Appena prima di schiantarsi contro la testa di Carrington, le parole gli strillarono contro.

       «Morto che parla, anguilla tutta pelle, lingua secca di bue, stringa di cuoio!»

      Ebbe il tempo per una frazione di secondo di orrore prima che le parole lo investissero con la forza di numerosi pugni.

       * * * *

      Quando si svegliò, era disteso sul tappeto con Amanda china su di lui.

      «Carr? Non avevi detto di stare così male. Devo chiamare qualcuno?»

      «Le parole mi hanno colpito», biascicò lui prima che il suo cervello si ricollegasse a dovere. «Libro… era… il libro là sopra».

      Amanda seguì il gesto della sua mano, la fronte aggrottata. «Già. Ci sono un sacco di libri qua dentro. Ti sei alzato per prendere un libro e sei svenuto?»

      «No. C’era un libro. Sul tavolo. Mi ha aggredito. Con le parole».

      «Merda». Amanda mise un braccio sotto di lui, sostenendolo contro di sé mentre gli porgeva lo spuntino di sangue. «Bevi questo, Carr. Chiamo i paramedici».

      Lui le afferrò la mano quando estrasse il telefono. «Manda, no. Sto bene. Più o meno. C’era un libro animato qua dentro, che si muoveva autonomamente, come GP. Mi ha… non sono sicuro di come descriverlo, ma mi ha tirato degli insulti e le parole… le parole mi hanno colpito».

      Amanda si immobilizzò. La sua espressione passò di scatto dalla preoccupazione a quella vacuità ferrea che la sua faccia assumeva nelle situazioni di pericolo. In silenzio, si alzò e chiuse la porta. Accendendo le luci mentre passava, perquisì la stanza, controllando sotto i mobili, salendo sulle sedie per esaminare i lampadari.

      «Riconosceresti il libro, Carr? È tornato sugli scaffali?»

      «Era piuttosto riconoscibile». La tazza ancora in mano, Carrington usò i mobili per far leva e rialzarsi. «Cuoio nero lucido e oro. Dovrebbe essere facile individuarlo in un confronto