Emilio Salgari

I pescatori di balene


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prepara due baleniere.

      – Pronto, capitano! – rispose il fiociniere.

      Con un fischio chiamò i diciotto marinai che formavano l’equipaggio del «Danebrog», e si mise alacremente al lavoro. Dieci minuti dopo tutto era pronto per la pesca. Non mancava che di calare le baleniere in mare e di muovere contro il cetaceo che non pareva disposto ad abbandonare quelle acque.

      Il capitano Weimar e il suo tenente, sempre in piedi sulla murata seguivano attentamente collo sguardo l’enorme pesce che di quando in quando si tuffava o avventava dei formidabili colpi di coda sollevando delle grandi ondate.

      Il primo si mostrava impazientissimo e imprecava contro l’oscurità; il secondo invece, uomo flemmatico quanto mai, quantunque non meno intrepido marinaio del capitano, appariva tranquillissimo e taceva fumando con tutta flemma in una vecchia pipa che quasi mai abbandonava.

      Anche Koninson e l’equipaggio erano in preda ad una viva agitazione, e ingiuriavano il cetaceo che non si lasciava accostare dalla nave, quantunque questa filasse con una notevole velocità avvicinandosi alle isole Aleutine, che ormai non dovevano essere molto lontane.

      Finalmente cominciò a far chiaro. Ad oriente apparve una luce biancastra che fece impallidire la luce degli astri e che gettò sui neri flutti delle tinte madreperlacee di bellissimo effetto.

      Il capitano attese ancora un po’, quindi tornò a puntare il cannocchiale verso il cetaceo che allora si trovava a due miglia dal «Danebrog», ma quasi nel medesimo istante il gigantesco pesce, quasi indovinasse che qualcuno lo spiava, si tuffò.

      – Ah, brigante! – esclamò Weimar. – Ma non per questo mi sfuggirai. Ehi, mastro Widdeak governa dritto su quel briccone!

      Il mastro non si fece ripetere il comando e lanciò il «Danebrog» verso il luogo ove il cetaceo si era inabissato; ma passarono dieci, venti, trenta minuti, senza che apparisse a galla.

      – Non è una balena quella là! – disse il capitano. – Se lo fosse, a quest’ora sarebbe già tornata a galla.

      – È un capodolio, capitano – disse il tenente. – Non ci sono che questi cetacei che siano capaci di starsene quaranta, cinquanta e anche sessanta minuti senza respirare.

      – Niente di meglio. Alla balena preferisco il capodolio che dà maggior profitto. Ma come mai si trova qui?

      – Guarda! Guarda! – gridò in quell’istante Koninson.

      A cinquecento metri dal «Danebrog» si era visto alla superficie dei mare un largo tremolio, segno evidente che il cetaceo stava per risalire; poi apparve un punto nero, indi una massa enorme che gettò in aria due nuvolette di vapore grigiastro. Koninson gettò un grido:

      – Un capodolio! Un capodolio! Alle baleniere, ragazzi!

      II. LA CACCIA

      Il fiociniere non si era ingannato.

      Era un vero capodolio, pesce enorme, dalla testaccia spaventevole che eguaglia il terzo della lunghezza del corpo, il muso assai rigonfio, la bocca immensa armata di cinquantaquattro denti di forma conica e ricurvi all’indentro e il dorso coperto di gibbosità più o meno grandi.

      Era lungo diciassette o diciotto metri, con una circonferenza di quattordici o quindici, enorme massa che prometteva almeno sessanta o settanta tonnellate dì eccellente olio, senza contare quel prezioso liquido conosciuto col nome di bianco di balena che portava nella testa.

      Il mostro pareva non essersi accorto della presenza del «Danebrog», e dopo il primo soffio si era messo a nuotare lentamente, quasi interamente sommerso, mostrando di quando in quando l’estremità dei muso e lanciando in aria, con sordo rumore, le nuvolette di vapore che diventavano però sempre meno fitte.

      – Abbiamo da fare senza dubbio con un vecchio maschio – disse il capitano.

      – Peccato che sia solo – disse Koninson che guardava il cetaceo con occhio fiammeggiante.

      – Avrai un gran da fare egualmente, fiociniere. Tu sai che questi mostri sono sempre di cattivo umore e coraggiosi fino alla pazzia. Affrettiamoci prima che si allontani troppo. Ai vostri posti, giovanotti.

      In un baleno furono imbrogliate le vele e le due baleniere sospese alle gru furono calate in mare. Erano queste due svelte imbarcazioni, colla prua tagliente, le costole saldissime, a prova di coda. I remi, i ramponi, le lance e le lenze erano già state collocate a posto.

      Il tenente Hostrup, Koninson e quattro robusti rematori, presero posto nella prima; mastro Widdeak, il secondo fiociniere Harwey, un bravo giovanotto allievo di Koninson e che aveva già ramponate non poche balene, presero posto nella seconda assieme ad altri quattro marinai.

      – C’è tutto? – chiese il capitano curvandosi sulla murata.

      – Tutto – risposero ad una voce il tenente e il mastro.

      – Al largo adunque e che Dio vi guardi!

      Le due baleniere a quel comando s’allontanarono fendendo le onde con grande rapidità. Il tenente e il mastro, con un lungo remo le guidavano e accanto a loro con una coscia trattenuta nella scanalatura della poppa, stavano i due fiocinieri cogli occhi fissi sul cetaceo e i ramponi in mano, lance terribili, munite di una freccia lunga un buon metro, in forma di una V rovesciata, coi margini esterni taglientissimi e i margini interni grossi e dritti per impedire all’arma, una volta entrata nelle carni del cetaceo di uscirne.

      Ad ognuna di queste armi era già attaccata una lenza di 400 metri terminante in una tavoletta di sughero grossa assai e sulla quale si vedeva impresso, a ferro rovente, il nome del «Danebrog» e il porto da dove era salpato.

      Il capodolio, a quanto pareva, non aveva ancora scorto le due baleniere che gli si avvicinavano rapidamente e in silenzio, manovrando in modo da coglierlo in mezzo. Continuava tranquillamente a nuotare, tuffando ora la testa per pascersi, o sollevando la possente coda bilobata, un sol colpo della quale era più che sufficiente per gettare in aria o schiacciare gli arditi cacciatori che stavano per affrontarlo.

      Già le baleniere non erano che a tre gomene, quando il mostro si voltò bruscamente verso di esse guardandole coi suoi occhietti e mostrando la sua enorme bocca capace di contenere tutti i dodici uomini che correvano su di lui. Contemporaneamente battè la coda in basso sollevando onde gigantesche.

      – Attenzione! – disse il tenente. – Il capodolio è inquieto.

      – Che brutto sguardo! – disse Koninson con voce un po’ alterata. – Si direbbe che affascina.

      – Non guardarlo, Koninson.

      – Guardo il punto ove posso lanciare il mio rampone.

      Le due baleniere avevano rallentata la corsa ed avanzavano colla massima prudenza cercando di virare al largo.

      Ad un tratto il capodolio gettò fuori una nuvoletta di vapore più denso, agitò la coda e si inabissò lentamente formando un piccolo vortice.

      – Fermi! – gridarono il tenente e il mastro.

      I marinai alzarono i remi e le due baleniere rimasero ferme, lasciandosi dondolare dalle onde.

      Nessuno fiatava nè si muoveva e tutti, eccettuato il tenente, erano pallidissimi. Persino Koninson, che aveva già cacciato centinaia di volte i giganti del mare era bianco e le sue membra provavano, di quando in quando, dei tremiti nervosi.

      Era il principio di quella strana paura che sovente invade i balenieri, anche i più audaci e i più invecchiati nel mestiere, paura che talvolta assume proporzioni tali da far perdere completamente la testa ai timonieri e ai remiganti e da togliere ai fiocinieri le forze in siffatta guisa da non essere più capaci di alzare il braccio per scagliare, al momento opportuno, il rampone.

      Se il mare fosse stato tranquillo e le baleniere, nel ricadere, non avessero fatto rumore, si sarebbe udito il cuore di Koninson e di tutti gli altri battere precipitosamente.

      – Coraggio, fiociniere! – disse il tenente.

      – Ne ho, signore! – rispose il giovanotto, sforzandosi di sembrare calmo. – Aspetto solo che il mostro ricompaia