era diventato un po’ nervoso. Passeggiava per la coperta fumando la sua eterna pipa con maggior furia e di tratto in tratto lo si udiva brontolare.
Koninson poi, che da ventiquattro ore aveva piantato domicilio nella rete della delfiniera per non perdere di vista le macchie oleose, dormendo colà e facendosi servire pure colà i pasti, era proprio furibondo. Lo si vedeva in continua agitazione, a rischio di sfondare la rete e di quando in quando lo si udiva mandare al diavolo tutti i capodolii degli oceani e. qualchevolta il rampone di Harwey.
Il 27 nulla ancora. Il mattino del 28, a trenta miglia a sud dal capo Rumjenzow, un gabbiere segnalò una nave che si dirigeva verso il sud correndo bordate.
Il capitano Weimar ordinò subito al timoniere di dirigere il «Danebrog» a quella volta per interrogare l’equipaggio.
Mezz’ora dopo si trovava a un solo miglio dalla nave segnalata. Era un bel «brick» di duecentocinquanta o trecento tonnellate, di forme eleganti e quasi carico. A poppa si alzava un fumo nerissimo segno evidente che l’equipaggio procedeva alla fusione di materie grasse.
– Deve essere un baleniere – disse il tenente.
– Weimar fece spiegare la bandiera danese e con una serie di segnali pregò il «brick» di mettersi in panna: il che subito fece. Il «Danebrog» in pochi minuti lo raggiunse mettendosi pure in panna a tre gomene di distanza.
– In che cosa posso esservi utile? – chiese il capitano del «brick», imboccando il portavoce, mentre il suo equipaggio spiegava la bandiera stellata degli Stati Uniti d’America.
– Venite dallo stretto? – chiese Weimar.
– L’avete detto.
– Avete incontrato un capodolio con un rampone al fianco?
– Sì, capitano. L’ho scorto ieri sera dinanzi la baia di Norton.
– Vivo?
– Vivo sì, ma mi parve agli estremi.
– Come va la pesca?
– Ho carico completo. Se volete un buon consiglio uscite dallo stretto e costellate la Giorgia. Troverete balene in gran numero.
– Grazie, capitano.
– Buona fortuna, signore.
Il «brick» spiegò le vele e riprese la corsa verso il sud, mentre il «Danebrog» si dirigeva verso il capo Rumjänzow che doveva apparire fra breve.
La speranza di ritrovare ben presto il capodolio era rinata in tutti i cuori. Koninson per primo aveva abbandonato il suo domicilio per arrampicarsi sulla gran gabbia e parecchi altri marinai l’avevano seguito, anzi alcuni si erano spinti più in alto, fino alle crocette. Persino il flemmatico tenente si era arrampicato sul trinchetto e dalla coffa esplorava il mare con un forte cannocchiale.
Alle 10 del mattino il «Danebrog» girava il capo Rumjänzow ed entrava nella baia di Chactoole, assai aperta e poco sicura, a nord-est della quale, fra il 64° e il 65° di latitudine nord e il 163° e il 164° di longitudine ovest, si apre la baia di Norton, scoperta dal celebre capitano Cook nel 1778.
Le coste apparivano dirupate e altissime, frastagliate, minate, sventrate dall’eterna azione del mare e con piccolissimi «fiords» entro i quali si ingolfavano le onde con grande fragore. Qua e là si vedeva qualche abete, qualche betulla nana, qualche cespuglio e delle cascate d’acqua che balzavano di roccia in roccia con bellissimo effetto.
Il «Danebrog» per qualche tratto navigò in prossimità delle coste, indi mise la prua verso la baia di Norton che raggiunse verso le 4 del pomeriggio dopo aver girato un capo dirupatissimo che cadeva quasi a piombo sul mare.
Quasi subito si udì Koninson dall’alto della gran gabbia gridare:
– Il capodolio a prua!
Tutti gli occhi si volsero verso la direzione accennata. A cinque sole gomene dal «Danebrog», vicinissimo alla costa, galleggiava coi ventre in aria il cetaceo circondato da migliaia e migliaia di uccelli marini che formavano, colle loro discordi grida, un baccano indiavolato.
IV. L’URAGANO
Era proprio il cetaceo che Harwey aveva ramponato dinanzi all’arcipelago delle isole Aleutine e che dopo due, tre, quattro giorni di continua fuga era colà andato a spirare.
Il mostro portava ancora nel fianco l’arma che l’aveva ucciso alla quale era attaccata la lenza colla «droga» portante le cifre del «Danebrog».
Sul suo ventre e sulla enorme testa che era un po’ affondata si vedevano le procellarie, i gabbiani, le urie e le strolaghe cibarsi delle sue grasse carni. Ve n’erano delle migliaia ed altre ancora accorrevano da tutte le parti dell’orizzonte per prendere parte al lauto banchetto.
Il «Danebrog», abilmente diretto da mastro Widdeak, venne a collocarsi a fianco del cetaceo, attorno al quale nuotavano già, ma senza arrischiarsi ad addentarlo, tanta è la paura che destano in tutti gli abitanti del mare siffatti giganti, numerosissime torme di smisurati pescicani.
– È un bel mostro – disse Koninson gettando gli occhi su quell’enorme massa. – Scommetterei che misura diciannove metri
– E forse di più disse il tenente. – Ci darà almeno novanta tonnellate d’olio.
– Ci vorrebbe una bestiaccia così ogni settimana. Si diventerebbe ricchi in una sola stagione.
– Al lavoro, giovanotti! – gridò il capitano. – Bisogna far presto se si vuole uscire dallo stretto di Behring prima della comparsa dei ghiacci.
Mastro Widdeak fece calare in mare una baleniera e vi saltò dentro con sei uomini armati di palette taglienti, abbordando il cetaceo alla testa. Con parecchi vigorosi colpi aprirono il labbro inferiore, entrarono nella enorme bocca e intaccarono la lingua, enorme massa oleosa del peso di parecchie tonnellate e che, ben cucinata, è un cibo non disprezzabile.
Mentre il mastro operava da quel lato, Koninson, seguito da parecchi marinai, tagliava un fitto strato di grasso in prossimità della testa, facendolo passare, senza però spezzarlo, a bordo.
Quando la lingua fu ritirata in coperta, i marinai cominciarono a far girare lentamente l’enorme cetaceo, il quale presentò presto il dorso irto di strane protuberanze.
Il tenente Hostrup e quattro uomini armati di scuri, con mille precauzioni, per non cadere in mare raggiunsero il cranio che tosto sfondarono per raccogliere quel prezioso olio che è conosciuto in commercio sotto il nome di «bianco di balena» e viene specialmente adoperato nella fabbricazione delle candele e dei saponi di lusso.
Quest’olio, o meglio questo spermaceto, è bianco, brillante, perlaceo e si trova in un canale allungato che forma, riunendosi, le ossa del cranio con quelle della faccia. Nell’animale vivo è fluido, ma nell’animale morto lo si trova coagulato e talvolta il canale, ne contiene più di quattro tonnellate. Ordinariamente però non sono che tre, e tante appunto ne conteneva il capodolio abbordato dal «Danebrog».
Raccolto lo spermaceto che si vende ad un prezzo piuttosto elevato, i marinai continuarono a far girare il cetaceo strappandogli la cotenna che appena a bordo veniva tagliata a pezzi e ammucchiata grossa a poppa, dove erano già state apparecchiate sul fornello delle caldaie della capacità di quattrocento cinquanta litri, per la fusione.
Ben presto la coperta della nave baleniera offrì una scena selvaggia. Quelle nubi di fumo nere, puzzolenti, che s’alzavano dai fornelli alimentati dai frammenti di tessuto cellulare del cetaceo; quelle caldaie che bollivano spandendo all’intorno un odore ancora più nauseante; quelle masse grasse che venivano gettate da tutte le parti spandendo veri rivi d’olio; quel sangue che salendo dalla cotenna arrossava la tolda e le murate quei marinai scalzi imbrattati di sudiciume e armati di coltelli di ogni dimensione, quel carcame enorme che mostrava le carni rossastre e le costole gigantesche, e quelle migliaia e migliaia di uccelli che s’incrociavano in tutti i versi, mescendo le loro rauche grida ai comandi degli uomini, ai brontolii delle caldaie e ai tuffi dei mostruosi pescicani, formavano uno strano quadro.
Le tenebre però, in breve, posero fine allo smembramento del carcame.