Emilio Salgari

Il Bramino dell'Assam


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cavallo aveva già presa una corsa sfrenata scomparendo quasi subito sotto i grandi vegetali.

      I bufali sempre maligni e molto intelligenti, avevano lasciato in pace il carro ed anche l’elefante, dalla cui proboscide, oltre che dalle zanne, molto avevano da temere, e si erano scagliati dietro al cavaliere, come il più debole a reggersi ad un attacco poderoso. Sotto le immense volte di verzura rintronarono due spari che parvero di pistola, poi anche la banda indemoniata, inattaccabile sempre muggente, scomparve, lanciata a gran velocità sulle tracce del cavaliere.

      «Hai udito, Kammamuri?» chiese Yanez, con voce un po’ alterata. «Anche il mio terzo ministro avvelenato!… La mia corte è piena di traditori dunque? Domani avveleneranno me, poi la rhani mia moglie, poi mio figlio ed anche tutti voi amici fedeli. Corpo d’una saetta!… Ne ho già abbastanza di questa corona che pesa come se fosse di piombo. Questo impero, come lo chiamano pomposamente, non vale la nostra piccola isola di Mòmpracem, per le centomila corna di tutti i diavoli noti ed ignoti».

      «La notizia che ci ha recata Bindar è impressionante, signore. Si direbbe che nella vostra corte si siano stabiliti alcuni di quei dacoiti che hanno avvelenato mezza popolazione del Bundelkund».

      «Io penso ad altro» disse Yanez, tormentando il grilletto della carabina. «E non è da oggi che questo pensiero terribile mi perseguita». «Dite, signor Yanez».

      «Che Sindhia sia fuggito dall’ospedale dei pazzi di Calcutta, dove l’avevamo internato».

      «Ma che!… Quell’eterno ubriacone non saprà mai fare nulla anche se libero, signor Yanez».

      «Io non condivido affatto la tua fiducia, mio bravo Kammamuri» rispose il principe. «Intorno a noi regna il tradimento, ed il tradimento indiano è il più terribile». «Signore, torniamo subito».

      «Se i bufali ci lasceranno il passo. Ritorneranno, lo vedrai, e ci daranno ancora dei grossi fastidi».

      Poi alzando la voce gridò al cornac che montava il coomareah, e che era riuscito a domare l’enorme bestione:

      «Metti in salvo Sahur!… Ci è necessario per tornare alla capitale. Approfitta di questo momento di tregua».

      «Sono ormai padrone io, maharajah, della mia bestia» rispose il cornac. «Ora lo condurrò in un luogo sicuro, e se vorrà fare dei capricci lavorerò d’arpione senza badare dove tocco». «Vàttene, allora!…» «Sì, signore».

      L’elefante si era calmato, non avendo veduto più i bufali, ed obbediva al suo conduttore abbastanza docilmente.

      Dapprima cercò di avvicinarsi al carro, forse coll’idea fissa di proteggere i cacciatori o di mettersi sotto la loro protezione, poi, dopo avere scrollato più volte il dorso gigantesco e le enormi orecchie, ritornò a piccolo trotto dentro la folta macchia.

      «Ritornare subito!» disse Yanez. «Si fa presto a dirlo: vorrei però vedere gli altri cacciatori nella nostra situazione. Finché non avremo distrutto buona parte di quei maligni animali, saremo costretti a rimanere qui». «Che abbiano raggiunto Bindar?» chiese Kammamuri.

      «No, è troppo esperto cavaliere, e poi montava uno dei miei più veloci cavalli. I bufali hanno la carica impetuosa, però dopo pochi minuti cominciano a sfiatarsi ed a rallentare la corsa». «Che ritornino?»

      «E me lo domandi? Mi sembra già di vedermeli dinanzi. Quelle bestie non lasciano il campo di battaglia senza tentare delle rivincite che faranno sempre paura non solo a tutti i cacciatori dell’Asia, bensì anche a quelli dell’Europa che qualche volta vengono fra noi a provare le loro grosse carabine. Avvelenato!… Ed è il terzo!… C’è da impazzire». «Da impressionarci certamente, signor Yanez».

      «Questa volta però voglio vedere ben dentro a questo delitto, e quel cane che lo ha commesso non sfuggirà alla scimitarra del mio carnefice. Conto assai su Timul: quell’uomo è un meraviglioso cercatore di piste. Se trova quella dell’assassino la seguirà anche fino alle grandi montagne dell’Himalaya, anzi più oltre, anche nel cuore del Tibet. Non comprendo il motivo di questi delitti. Io sono popolarissimo, la rhani mia moglie più di me ancora, tutti ci amano e… ci avvelenano a tradimento. Cominciando da questa sera io non mangerò che uova sode che spaccherò e sguscerò io».

      «E farete bene, signor Yanez. Non c’è più da fidarsi. Impasterò il pane io per voi, per la rhani, per il piccolo Soarez e per il mio padrone».

      «Un vecchio cacciatore che diventa panettiere!…» disse il portoghese, tentando di scherzare.

      «Noi, maharatti, sappiamo ammazzare una tigre od un elefante, come impastare e cucinare una pagnotta. Prendo io il comando delle cucine reali e, se sorprendo qualche cuoco a gettare nei cibi delle polveri velenose, lo uccido con un solo colpo di tarwar». «E poi darai il corpo a mangiare alle tigri dei nostri giardini».

      «Sissignore. Dobbiamo impressionare profondamente questi traditori che minacciano di mandarci tutti tra le braccia di Parvati, la dea della morte». «Aspetta prima di sorprenderlo!» «Eh!… Chi lo sa!…»

      «Vedremo che cosa dovremo fare quando saremo ritornati alla capitale. Intanto, giacché ti sei offerto come cuoco, per me e per tutti i miei preparerai uova». «Vi stancherete, signore» disse Kammamuri, ridendo. «Mangeremo anche delle frutta che sbucceremo noi».

      «Non mi fiderei più, signor Yanez. Si fa presto ad avvelenare un banano iniettando sotto la scorza, con una sottile siringa, un po’ di bava del cobra-capello».

      «Mi fai venire freddo, Kammamuri, eppure il termometro segna 40° e alza sempre. Queste cose a Mòmpracem non succedevano. Eh!… Tornano?»

      «Sì, mi pare» rispose Kammamuri. «Saranno più furibondi che mai e tenteranno di rovesciare il carro». «Non sono elefanti» rispose Yanez. «Tutte le carabine sono cariche?» «Sì, Altezza» risposero ad una voce gli sikkari.

      «Daremo un’altra terribile lezione a quei bruti che minacciano di tenerci qui prigionieri, mentre così gravi avvenimenti succedono nella mia capitale».

      «Udite, signore?» gridò in quel momento Kammamuri. «Forzano la foresta e cercano di piombarci addosso da un’altra parte».

      «Guarda se qualcuno di quei bestioni ha le budella del cavallo appese alle corna».

      «Siva non lo voglia, poiché significherebbe che anche Bindar è stato sventrato». «Può essersi salvato su di un albero. Pronti!…»

      I bufali giungevano col solito slancio, aprendosi impetuosamente il passo attraverso i cespugli che venivano atterrati e quasi polverizzati da tutte quelle poderose zampe.

      Si arrestarono un momento sul margine della radura in mezzo alla quale si trovava il carro, muggendo furiosamente. Grondavano sudore e la schiuma imbrattava i loro larghi petti, scendendo a terra, come tanti piccoli fili d’argento.

      Dovevano essere esausti. Il cavallo li aveva certamente trascinati in una corsa velocissima, sfuggendo anche al loro attacco, perché dalle corna delle bestie non pendeva nessun intestino. I loro fianchi pulsavano fortemente ed i loro occhi erano iniettati di sangue in modo da fare spavento.

      «Giù!…» comandò Yanez, che cominciava ad averne abbastanza dell’ostinazione di quegli animali.

      Otto colpi partono, uno dietro all’altro, ed una pioggia di palle coniche, rivestite di rame, colpisce nuovamente in pieno i giganti delle jungle. Tre o quattro cadono, colle spine dorsali fracassate, poiché i cacciatori non miravano né alla testa, né al petto, ma gli altri, sempre più inferociti, si scagliano come una tromba, colle corna ben tese, decisi a non rientrare nella boscaglia senza aver vendicati i compagni. Il momento è terribile. Il carro è pesantissimo ed assai robusto, tuttavia anche Yanez è diventato un po’ pallido. «Non lasciamoli avvicinare!…» gridò. «Fuoco!… Fuoco!… Fuoco!…»

      CAPITOLO SECONDO: IL VELENO DEL BIS COBRA

      Sparavano gli sikkari, freddamente, da vecchi cacciatori, lanciando le loro palle coniche in tutte le direzioni, poiché l’attacco era diventato avvolgente, ma i terribili animali invasati dal demonio della vendetta, non avevano interrotto il loro spaventoso attacco. Tre volte passarono