Emilio Salgari

Il Bramino dell'Assam


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quaranta, e forse anche più, e tutti di mole enorme. Il loro urto fu così formidabile che il carro, malgrado il suo peso, e quantunque avesse le alte ruote affondate nel molle terreno della foresta, indietreggiò con un rombo spaventevole. Per un momento Yanez ed i suoi compagni provarono la sensazione di una violentissima scossa di terremoto e temettero che tutto andasse all’aria ma le grosse travi, bene unite da arpioni di ferro, tennero fermo. I bufali, sempre più rabbiosi, si accanivano raddoppiando le cariche con una violenza forse mai veduta. Alcuni si erano spezzate le corna, altri erano rimasti come appesi ed erano stati subito finiti colle lunghe pistole indiane, armi magnifiche che valgono meglio di tutte le rivoltelle del nuovo e del vecchio mondo.

      I colpi si susseguivano ai colpi, i lampi ai lampi, il fumo al fumo. Due sikkari ricaricavano senza posa le armi che passavano poi a Yanez ed ai suoi compagni, i quali conservavano un meraviglioso sangue freddo, quantunque il grosso carro subisse un vero rollio, come se fosse diventato una nave perduta entro qualche grande tempesta. Già dieci o dodici bufali giacevano al suolo, alcuni fulminati, altri gravemente feriti da quelle palle rivestite di rame, quando un barrito formidabile echeggiò sul margine della radura.

      «Per Giove!…» esclamò Yanez, fulminando con una pistolettata un vecchio toro che aveva piantate le sue corna così profondamente entro le travi, da non potersi più ritrarre. «È diventato pazzo quel bestione? O le sue budella gli pesano dentro il gran ventre? Che cosa fa il cornac? Per Giove!… Non ce la caveremo più se anche l’elefante si fa sventrare. Chi tirerà questa fortezza fino alla capitale?»

      Parlava, ma sparava, adoperando ora le grosse carabine da caccia ed ora le pistole, malmenando orribilmente i testardi delle jungle.

      «No, signor Yanez» disse Kammamuri, alzando la carabina fumante colla quale aveva atterrato un altro bufalo. «Sahur per la seconda volta accorre in nostro aiuto. Ah!… Quanta intelligenza hanno i nostri elefanti!… Guardate: il cornac lo guida come se fosse un agnellino».

      Sahur usciva in quel momento dalla macchia, però non pareva affatto che fosse un agnellino. Caricava anche lui, colla tromba in aria, le zanne tese, lanciando una vera fanfara di guerra.

      Il suo cornac, ormai completamente tranquillo sulle intenzioni del colosso, non faceva nemmeno uso dell’arpione. Lo eccitava invece con dolci parole, chiamandolo forte dei forti, sterminatore di tutte le tigri, potente dei potenti. Il bravo elefante, sensibile a quelle lodi, conscio d’altronde della propria forza, rovinò a sua volta in mezzo ai bufali menando terribili colpi di proboscide.

      Parevano cannonate. I bufali cadevano coi crani sfracellati o colle costole ed i polmoni sfondati. Lavoravano le carabine e le pistole, ma lavorava meglio il bravo e coraggioso elefante.

      Agile, malgrado le sue forme massiccie, sfuggiva agli assalti fulminei dei bufali, che riceveva o sulla sua potente proboscide o sulle sue zanne. Il cornac lo eccitava sempre.

      «Va’, figlio di Visnù!… Va’, terrore delle jungle!… Stermina, distruggi per la salvezza dei tuoi padroni!…»

      E l’elefante alle cariche dei bufali rispondeva con altrettante cariche, gettandone sempre in aria parecchi, che poi calpestava rabbiosamente sotto le larghe zampe, facendo crocchiare le ossa.

      «Fulmini di Giove!…» esclamò Yanez, che aveva appena allora sparato due colpi di pistola. «Questo elefante è veramente meraviglioso!… Sotto, Sahur!…»

      Il pachiderma, come se avesse conosciuta la voce del suo signore, si scagliò proprio in mezzo ai bufali che si accanivano intorno al carro, senza grande successo, menando la tromba con vigore estremo. Fracassava costole, spezzava gobbe, sfondava teste, servendosi anche, di quando in quando delle sue lunghissime ben affilate zanne per inchiodare al suolo qualche avversario che minacciava di piantargli le corna nel ventre.

      «Forza, Sahur!…» gridava il cornac, tenendosi dietro le enormi orecchie del bestione. «Uccidi! Distruggi come Brahma, Siva e Visnù!… Guàrdati dalle corna, mio piccolo pavone, e nient’altro!…»

      L’elefante, incoraggiato anche dalle grida degli sikkari che ben conosceva, ed inebriato un po’ dall’odor della polvere, poiché il fuoco continuava dal carro, facendo dei grandi vuoti fra gli assalitori, aumentava la sua collera.

      Caricava e ricaricava alla disperata, menando sempre la proboscide, la quale cadeva sulle robuste spalle dei bufali col fragore di tanti colpi di spingarda. Più che decimati dal fuoco delle carabine e delle lunghe pistole e dai colpi di tromba, i testardi figli delle umide jungle, dopo d’aver tentato ancora una carica disperata, volsero le groppe e fuggirono rientrando nella foresta. Quindici o sedici di loro erano rimasti sul terreno. Tre o quattro altri stavano spirando, muggendo disperatamente e tirando calci.

      «Finalmente!…» esclamò Yanez, dopo d’aver sparato un ultimo colpo di carabina sulla banda fuggente ed ormai completamente disorganizzata. «Abbiamo consumato delle belle munizioni per dare da mangiare alle tigri ed agli sciacalli».

      «Come, signore?» chiese Kammamuri. «Non farete togliere almeno le lingue ai morti? Sapete bene quanto sono squisite». «Ho fretta di tornare alla capitale».

      «Almeno un po’ di lingue per mostrare che noi abbiamo ucciso veramente di questi bufali che fanno tanta paura ai più audaci cacciatori».

      «Ti accordo un quarto d’ora, il tempo necessario per aggiogare Sahur al carro. Prendi gli sikkari e fa’ presto».

      I sette uomini balzarono a terra, armati di scuri e di coltelli, mentre Yanez offriva all’elefante una manata di pezzi di zucchero.

      «Sai, cornac», disse «che abbiamo un elefante meraviglioso? Non credevo che questo coomareah fosse capace di caricare dei bisonti. Un merghee vi si sarebbe certamente rifiutato».

      «Lo credo anch’io, Altezza» rispose l’indiano, accarezzando il bestione, al quale Yanez continuava ad offrire zucchero e delle pagnotte col burro. «Per me è il migliore che possediamo». «Basta, attacca e torniamo subito alla capitale. Ho molta fretta, cornac». «Sahur, se troverà posto correrà come un cavallo». «A terra allora, e prima esamina le catene poiché il carro è pesantissimo». «Fra cinque minuti noi saremo in viaggio, Altezza».

      Yanez discese dal carro e raggiunse Kammamuri e gli sikkari. Questi lavorando a gran lena, sfondando e tagliando, avevano già messe da parte quindici o sedici lingue di dimensioni straordinarie e che promettevano bocconi squisiti.

      «Ne serberai una per me, Kammamuri, per la cena di questa sera, ma tu solo devi incaricarti della sua cottura».

      «Ah!… Avete già rinunciato alle uova, signor Yanez?» disse il maharatto, con accento un po’ beffardo.

      «Comincerò domani» rispose serio serio Yanez. «Lasciate andare gli altri bufali».

      «Peccato lasciare tutta questa carne agli sciacalli. Questa sera accorreranno qui a centinaia e centinaia, e domani non avranno lasciate che le ossa».

      «Non abbiamo tempo di occuparcene, mio bravo Kammamuri: partiamo subito».

      Sahur era stato già attaccato al pesantissimo carro, mediante robuste catene, e cominciava a dar segni d’impazienza soffiando rumorosamente e pestando e ripestando il terreno colle sue larghe zampe. «Siamo pronti, cornac?» chiese Yanez. «Quando vorrete, Altezza».

      Gli sikkari con Kammamuri montarono portando le lingue che accumularono in un angolo, coprendole con un pezzo di tela, per tenere lontane le mosche che nelle foreste indiane, sono assai grosse e voracissime, poi mentre Yanez accendeva la sua eterna sigaretta, il coomareah, ad un grido del suo conduttore raccolse tutte le sue forze e diede uno strappo violento tendendo le catene. L’enorme carro, che aveva le quattro ruote mezzo affondate nel terreno molle e quasi spugnoso, per qualche po’ rimase immobile, però alla terza ripresa del bravo elefante fu come strappato, e si mise in viaggio attraverso alla folta foresta che cominciava a diventare oscura per l’imminente tramonto del sole.

      «Non credevo di tardare tanto» disse Yanez, il quale continuava a fumare seduto su una cassa contenente dei viveri e delle bottiglie. «Eppure siamo partiti di buon mattino, è vero, Kammamuri?» «Ci si vedeva appena, Altezza».

      «Che il diavolo porti nelle bolge infernali te e tutte le Altezze che regnano