gli uomini d’arme di terra usa giocare una pelle, quando si è stanchi di gettare dell’oro sul tavolo.
– Ossia? – chiese il conte de Miranda con calma.
– Quello che perde si fa saltare il cervello con un colpo di pistola.
– Brutto giuoco!
– Anzi interessantissimo, perché si giuoca la vita d’un uomo.
– Preferisco arrischiare i miei dobloni – rispose il giovane. – Lo trovo
piú comodo.
– E quando non se ne hanno piú?
– Si lascia il tavolino da giuoco e si va a dormire nella cabina: almeno cosí usa nella marina.
– Non fra noi però!
– Che diavolo! Sareste uomini tanto diversi, signor conte?
– Può darsi! – rispose seccamente il capitano.
– Avete pessimi gusti.
– Volete offendermi?
– Io? Niente affatto, capitano, sono venuto qui per giocare e non per arrabbiarmi o suscitare uno scandalo. Che cosa si direbbe di me?
– Forse avete ragione.
– Lasciate dunque in pace le pelli vive o morte, e giochiamo dei dobloni o delle piastre. Quelle almeno non hanno peli né da vendere né da uccidersi
– Puntate?
– Cento piastre – rispose il giovane gentiluomo.
– Volete rovinarmi?
– No, perché sono un pessimo giocatore, signor di Sant’Iago; e poi non ho mai avuto fortuna né alle carte, né ai dadi.
– L’avrete con le belle signore, con le marchese soprattutto – disse il capitano quasi con rabbia.
– In mare non ho incontrato che navi, montate per lo piú da corsari, e quelle non mi regalavano baci, ve l’assicuro. Al mio saluto rispondevano invece con palle di buon calibro che facevano sudar freddo i miei uomini.
– Ma in terra, sí però.
– Signor di Sant’Iago, io sono entrato in questo salotto per giocare qualche migliaio di piastre e non già per chiacchierare. Dovreste saperlo che gli uomini di mare non amano parlar molto… Cento piastre?
– Sia! – rispose il conte di Sant’Iago con un gesto sprezzante.
– Volete essere il primo?
Il capitano, invece di rispondere, prese il bossolo d’oro, fece saltellare i dadi: poi li rovesciò sul tavolino.
– Tredici! – disse. – Ecco un numero che porterà fortuna.
– Siete superstizioso?
– No, tuttavia questo tredici mi ha dato una scossa al cuore.
– Allora morrete molto presto – disse il conte de Miranda ridendo.
– Per mano di chi?
– Non sono mai stato uno stregone, io.
– D’un rivale?
– Può essere.
– Non lo credo, perché ne ho ucciso uno la settimana scorsa, per il semplice motivo che mi dava ombra.
– Avete la mano troppo lesta, signor di Sant’Iago.
– Che fora sempre quando stringe una spada.
– Veramente anche la mia non è tarda – ribattè il giovane. Il capitano degli alabardieri lo guardò fisso fisso, come se cercasse di comprendere bene il senso di quelle parole, poi disse:
– Tocca a voi.
Il conte de Miranda prese a sua volta il bossolo e fece rotolare i dadi sul tappeto.
– Quattordici! Che combinazione! – esclamò. – Caramba! Un tredici e un quattordici.
Che cosa significano questi due numeri cosí vicini l’uno all’altro?
Il capitano degli alabardieri si era passata una mano sulla fronte aggrottata. Una viva preoccupazione traspariva dal suo viso.
– Che cosa ne dite voi, signor di Sant’Iago? – chiese il giovane.
– Che voi avete vinte le mie cento piastre.
– Di quelle non mi occupo: io parlo dei due numeri.
– Nemmeno io sono uno stregone.
– Continuate?
– Sí: voglio vedere come si combineranno i nuovi numeri. Vi propongo tre colpi di cinquecento piastre ciascuno.
– Sta bene: a voi.
Il capitano riprese il bossolo e, dopo aver agitato nervosamente i dadi, li fece saltare sul tappeto.
Un’imprecazione a malapena repressa gli sfuggí, mentre la fronte gli s’imperlava di sudore.
– Tredici ancora! – aveva esclamato. – È col diavolo che io gioco?
– Veramente sono vestito come lui! – disse il conte de Miranda, sempre ilare.
– Giocate, per Dios!
– Dodici! – esclamò il giovane.
Il capitano sussultò.
– Il tredici chiuso fra il dodici ed il quattordici! – disse, battendo un pugno sul tavolino.
– Non trovate strano tutto ciò, conte?
– Infatti è una cosa che dà a pensare.
– E il numero fatale l’ho io!
– Ma mi avete vinto cinquecento piastre, una somma che può consolare anche un capitano degli alabardieri.
– Avrei preferito perderle, purché fosse uscito un altro numero.
– Né io, né voi possiamo comandare ai dadi. Continuiamo.
La partita fu ripresa, ed il conte d Miranda vinse le altre mille piastre, con un quindici e con un diciassette, contro un quattordici ed un sedici.
Il capitano si era alzato di cattivo umore, nel momento in cui i servi annunciavano che era la mezzanotte e che perciò la festa era finita.
– Vi manderò domani a bordo le millecento piastre che mi avete vinto, conte – disse il signor di Sant’Iago con voce secca.
– Non abbiate fretta – rispose il giovane.
– Mi accorderete una rivincita, spero.
– Quando vorrete.
– Non qui però.
– Perché?
– Non ho fortuna in questa casa.
– E non si può litigar liberamente; è vero, capitano? – chiese il de Miranda ironicamente.
– Può essere – rispose il capitano. – Buona sera, conte.
Ciò detto, uscí dal salotto ed entrò nella sala da ballo, dove dame e cavalieri si affollavano intorno alla marchesa di Montelimar per accomiatarsi.
Il comandante della Nuova Castiglia si era invece fermato, appoggiandosi allo stipite della porta.
Aspettava probabilmente che gli invitati se ne andassero.
Dall’espressione del suo viso si capiva che non era meno preoccupato del conte di Sant’Iago. Tormentava con la sinistra la guardia della sua spada e si torceva nervosamente i baffi. Quando la splendida sala fu quasi vuota, a sua volta avanzò verso la marchesa, la quale pareva che già lo cercasse con lo sguardo.
– Signora, – le disse inchinandosi – mi perdonerete se io non sono piú rientrato per fare un’altra danza con voi, ma mi ero impegnato in una grave partita al giuoco.
– Col capitano degli alabardieri? – chiese