capitano!
– Giungi in buon punto, malese mio, – rispose Yanez. – Ho appena terminato ora il mio colloquio con Tangusa. Che cosa c’è di nuovo?
– S’avanzano.
– I dayaki?
– Sì, capitano.
– Va bene.
Il portoghese uscì dal quadro, salì la scala e giunse in coperta. Il sole stava allora per tramontare in mezzo ad una nuvola d’oro, tingendo di rosso il mare, che la brezza lievemente corrugava.
La Marianna era sempre immobile, anzi essendo quello il momento della massima marea bassa, si era un po’ coricata sul fianco di babordo, in maniera che la coperta rimaneva sbandata.
Verso le isolette che facevano argine all’irrompere del fiume, una dozzina di grossi canotti, fra cui quattro doppi, s’avanzava lentamente verso il mezzo della baia, preceduta da un piccolo praho che era armato d’un mirim, un pezzo d’artiglieria un po’ più grosso dei lilà, quantunque fuso allo stesso modo, con ottone grossolano, rame e piombo.
– Ah! – fece Yanez, colla sua solita flemma. – Vogliono misurarsi con noi? Benissimo, avremo polvere in abbondanza da regalare, è vero Sambigliong?
– La provvista è copiosa, capitano, – rispose il malese.
– Noto che s’avanzano molto adagio. Pare che non abbiano nessuna fretta, mio caro Sambigliong!
– Aspettano che la notte scenda.
– Prima che la luce se ne fugga vediamo che musi sono. – Prese il cannocchiale e lo puntò sul piccolo praho che precedeva sempre la flottiglia delle scialuppe.
Vi erano quindici o venti uomini a bordo, che indossavano l’abito guerresco; pantaloni stretti, abbottonati all’anca e al collo dei piedi, sarong cortissimo, in testa il tudung, un curioso berretto con lunga visiera e molte piume. Alcuni erano armati di fucile; i più avevano invece dei kampilang, quelle pesanti sciabole a doccia d’un acciaio finissimo, dei pisau-raut, ossia specie di pugnali dalla lama larga e non serpeggiante come i kriss malesi, e avevano dei grandi scudi di pelle di bufalo di forma quadrata.
– Bei tipi, – disse Yanez colla sua solita calma.
– Sono molti, signore.
– Ouff! Un centinaio e mezzo, mio caro Sambigliong.
Si volse guardando la tolda della Marianna.
I suoi quaranta uomini erano tutti ai loro posti di combattimento. Gli artiglieri dietro ai due cannoni da caccia e alle quattro spingarde, i fucilieri dietro alle murate i cui bordi erano coperti di fasci di spine acutissime e gli uomini di manovra, che pel momento non avevano nulla da fare essendo il veliero sempre arenato, sulle coffe muniti di bombe da lanciare a mano e armati di carabine indiane di lunga portata.
– Vengano a trovarci! – mormorò, visibilmente soddisfatto degli ordini impartiti da Sambigliong.
Il sole stava per scomparire, diffondendo i suoi ultimi raggi e bagnando di luce aurea o rossastra le coste dell’immensa isola e le scogliere contro cui si frangevano rumoreggiando le onde che venivano dal largo.
Il grande globo incandescente calava superbamente in acqua, incendiando un gran ventaglio di nubi al di sopra delle quali s’innalzavano grandi zone d’oro e lembi ampi di porpora, smaglianti sull’azzurro chiaro del cielo.
Finalmente s’immerse, quasi bruscamente, infiammando per alcuni istanti tutto l’orizzonte, poi quell’onda di luce si attenuò rapidamente, non essendovi crepuscoli sotto quelle latitudini, la grande fantasmagoria solare si estinse e le tenebre piombarono avvolgendo la baia, le isole e le coste bornesi.
– Buona notte per gli altri e cattiva per noi, – disse Yanez, che non aveva potuto fare a meno di contemplare quello splendido tramonto.
Guardò la flottiglia nemica. Il piccolo praho, le doppie scialuppe e quelle semplici affrettavano la corsa.
– Siamo pronti? – chiese Yanez.
– Sì, – rispose Sambigliong per tutti.
– Allora, Tigrotti di Mompracem, non vi trattengo più.
Il piccolo praho era a buon tiro e copriva le scialuppe che lo seguivano in fila, l’una dietro all’altra, per non esporsi al fuoco delle artiglierie della Marianna.
Sambigliong si curvò su uno dei due pezzi da caccia piazzati sul cassero che erano montati su perni giranti onde potessero far fuoco in tutte le direzioni e, dopo aver mirato per qualche istante, fece fuoco, spezzando netto l’albero di trinchetto, il quale cadde sul ponte assieme all’immensa vela.
A quel colpo veramente meraviglioso, urla furiose s’alzarono sulle scialuppe, poi la prora del legno mutilato a sua volta avvampò.
Il mirim del piccolo veliero aveva risposto al fuoco della Marianna, ma la palla, male diretta, non aveva fatto altro danno che quello di forare il contro fiocco che Yanez non aveva fatto ammainare.
– Quei bricconi tirano come i coscritti del mio paese, – disse Yanez, che continuava a fumare placidamente, appoggiato alla murata di prora.
A quel secondo sparo tenne dietro una serie di detonazioni secche. Erano i lilà delle doppie scialuppe che appoggiavano il fuoco del piccolo praho.
Quei cannoncini non erano fortunatamente ancora a buon tiro e tutto finì in molto baccano e molto fumo senza nessun danno per la Marianna.
– Demolisci il praho, innanzi tutto, Sambigliong, – disse Yanez, – e cerca di smontare il mirim che è il solo che possa danneggiarci. Sei uomini ai due pezzi da caccia e accelerate il fuoco più…
Si era bruscamente interrotto ed aveva lanciato un rapido sguardo verso poppa. Ad un tratto trasalì e fece un gesto di sorpresa.
– Sambigliong! – esclamò, impallidendo.
– Non temete, signor Yanez, il praho fra due minuti sarà fracassato o per lo meno rasato come un pontone.
– È il pilota che non vedo più.
– Il pilota! – esclamò il malese lasciando il pezzo di caccia che era già puntato. – Dov’è quel briccone?
Yanez aveva attraversata rapidamente la tolda, in preda ad una visibile emozione.
– Cerca il pilota! – gridò.
– Capitano, – disse un malese che era al servizio dei due pezzi di poppa, – l’ho veduto or ora scendere nel quadro.
Sambigliong, che forse aveva avuto il medesimo sospetto del portoghese, si era già precipitato giù per la scaletta, impugnando una pistola. Yanez lo aveva subito seguìto mentre i due cannoni da caccia tuonavano contro la flottiglia, con un rimbombo assordante.
– Ah! cane! – udì gridare.
Sambigliong aveva afferrato il pilota che stava per uscire da una cabina, tenendo in mano un pezzo di corda incatramata accesa.
– Che cosa facevi, miserabile? – urlò Yanez precipitandosi a sua volta sul malese che tentava di opporre resistenza al mastro.
Il pilota, vedendo il comandante che aveva pure impugnata una pistola e che pareva pronto a fargli scoppiare la testa, era diventato grigiastro, ossia pallido, pure rispose con una certa calma:
– Signore, sona disceso per cercare una miccia per le spingarde…
– Qui, le micce! – gridò Yanez. – Tu, briccone, cercavi d’incendiarci la nave!
– Io!
– Sambigliong, lega quest’uomo! – comandò il portoghese. – Quando avremo battuto i dayaki avrà da fare con noi.
– Non occorrono corde, signor Yanez, – rispose il mastro. – Lo faremo dormire per una dozzina d’ore, senza che ci dia alcun fastidio.
Afferrò brutalmente per le spalle il pilota che non cercava più di opporre resistenza, e gli compresse coi pollici tesi la nuca, poi gli affondò nel collo, un po’ al disotto degli angoli