quattro verghe d’oro e le porse al Cambogiano, i cui sguardi erano diventati ardenti, al veder scintillare nelle mani del puram il fulvo metallo.
«Ecco qui mille tical che dividerai coi tuoi complici,» disse. «A più tardi il resto, giacché la vostra impresa non è ancora terminata. Un giorno tu sarai mandarino.»
«Non vi sono più S’hen-mheng da uccidere, mio signore!» disse Kopom.
«Ma vi è Len-Pra da rapire,» rispose Mien-Ming. «Credi tu che io non voglia raccogliere i frutti della mia vendetta?»
«Dovremo uccidere il generale?»
«No, almeno per ora. Mi basta allontanarlo.»
«Che cosa devo fare?»
«Recarti alla pagoda di vot-baromanivet e avvertire Kodom di recarsi qui all’istante. Prenderai una lettiga con otto servi.
Faremo fare della strada a quel bravo talapoino, giacché ambisce di diventare il capo della comunità!
Fa’ presto: quell’uomo mi preme.»
Kopom mi mise nella cintura le verghe d’oro, fece al briccone un profondo inchino e uscì correndo.
Non erano trascorsi venti minuti, quando Mien-Ming, che si era ricoricato sul largo cuscino di seta, riaccendendo la sua pipa carica d’oppio e sorseggiando una tazza di tè bollente, udì il gong sospeso alla porta risuonare fragorosamente.
«Deve essere quel bravo talapoino,» mormorò. «Che gambe ha quel Kopom!»
Si alzò posando la pipa su una mensola d’argento e si diresse verso la porta, mormorando fra sé:
«Riceviamolo degnamente, quantunque lo ritenga un briccone mio pari.»
Un uomo magrissimo, col viso incartapecorito e rugoso, entrò, facendo un profondo inchino e dicendo con una voce fessa, punto piacevole:
«Che Sommona Kodom guardi il puram del re.»
Quell’uomo aveva il capo scoperto e privo di capelli, i piedi nudi; il suo corpo era avvolto in tre pezzi di seta gialla, il colore riservato al re: il primo gli avviluppava il braccio sinistro e metà del corpo fino alla cintura, lasciando nudo il braccio destro: il secondo dalla cintura gli scendeva fino ai polpacci delle gambe: il terzo invece gli avvolgeva le reni come una larga fascia e sosteneva una lunga corona formata di cento e otto globetti, di cui si servono tutti i talapoini per recitare le loro preghiere in lingua bali.
Oltre ad aver il capo rasato, aveva così anche la faccia e perfino le sopracciglia.
I talapoini sono monaci buddisti e, soprattutto nel Siam, formano delle corporazioni potentissime e assai rispettate non solo dal popolo e dai grandi, ma anche dallo stesso re: posseggono un numero infinito di val, ossia di conventi, che racchiudono dei tesori favolosi.
Ve ne sono di parecchi ordini, e tutti devono vivere di carità e mendicare ogni giorno alle porte dei ricchi e anche dei poveri; e non tornano mai ai loro monasteri a mani vuote, anzi sempre carichi come muli, giacché nessuno oserebbe rifiutare a così santi uomini una moneta o del riso od altro.
Ricevono poi offerte dai grandi e dallo stesso re, il quale anzi tutti i giorni accoglie i monaci della pagoda di Mong-kut, che formano fra i talapoini una specie di aristocrazia, e che devono venire nutriti a spese della corte.
Il talapoino che era entrato nel salotto di Mien-Ming non era un monaco qualunque, anzi per i suoi meriti e per le sue virtù era stato innalzato alla carica di sancrato, titolo che corrisponderebbe alla dignità di vescovo, e ne portava le insegne dorate sul talapa che teneva in mano, una specie di ventaglio di seta gialla, che quei religiosi portano sempre con sé, onde coprirsi il viso ogni volta che incontrano delle donne.
«Che cosa desideri da me, puram?» chiese il monaco, dopo essersi seduto su un seggiolone di bambù, offertogli premurosamente da Mien-Ming.
«Sai, sancrato, che il S’hen-mheng è morto?»
«L’ho appreso or ora e non puoi immaginarti, puram, il dolore immenso che mi ha cagionato quella notizia.»
«Ed a me del pari,» disse il puram sospirando, «e prevedo che gravi disgrazie colpiranno il nostro povero paese, se non si troverà qualche altro S’hen-mheng che incarni l’anima di Sommona Kodom.»
«Possibile che non ne esista più alcuno nelle folte foreste del settentrione? Che il nostro paese sia stato maledetto?»
«Tutte le spedizioni organizzate dal re sono tornate a mani vuote, e temo anch’io che qualche possente stregone o qualche genio malvagio abbia gettato la jettatura sul regno.»
«Qualche naghar?»
«O una di quelle terribili garude di cui parlano le nostre storie e i nostri libri sacri; a meno che…»
«Parla, puram,» disse il talapoino.
«La notte di ieri io l’ho trascorsa pregando dinanzi alla statua di Sommona Kodom, nella pagoda di vat-scetuphon, affinché il dio m’indicasse il luogo dove potessi trovare un altro S’hen-mheng e salvare così il regno dai disastri che non tarderanno a colpirlo.»
«E te lo ha indicato?» chiese il talapoino, con ansietà.
«Tornando a casa verso l’alba, mi sono sentito cogliere da un sonno irresistibile e poco dopo m’è apparso in sogno Sommona Kodom.»
«Il dio?»
«Sì.»
«E ti ha parlato?»
«Mi ha parlato,» rispose il puram imperturbabile. «Egli montava una gigantesca garude dalle penne d’oro, col rostro e gli artigli di rubini e gli occhi di fuoco.
M’invitò a salirvi, dicendomi:
«Ti voglio condurre, giacché mi hai tanto pregato, in un luogo ove tu troverai il driving-hook che io ho sepolto prima di abbandonare la terra, e senza il quale non si potrà trovare alcun elefante bianco».
Poi l’aquila riprese il volo con rapidità prodigiosa; seguendo il corso del Menam, finché si librò sopra una città semidiroccata, con alte cupole e porticati immensi, popolata solamente da pipistrelli.»
«Ecco dove si trova il driving-hook», mi disse allora il dio. «Cercalo, perché senza quello il Siam non avrà mai alcun S’hen-mheng.»
Poi scomparve, senz’altro aggiungere.»
Mien-Ming tacque un momento, poi, volgendosi verso il monaco, che pareva lo ascoltasse ancora, gli chiese:
«Tu che sei fra tutti i sancrati il più istruito e che conosci tutti i libri antichi hai mai udito parlare di una città simile?»
«Sì, i libri fanno menzione di quattro grandi città, cadute in rovina da secoli e secoli, e che sarebbero state popolate un giorno da un popolo immenso, e narrano che in una di esse sarebbe stato veramente sepolto il driving-hook di Sommona Kodom, dopo la sua ultima trasformazione.»
«Anch’io ho udito, nella mia gioventù (quando non ero ancora sceso nel Siam, perché sono Cambogiano), parlare di rovine imponenti e soprattutto d’una immensa città, che si dice fosse stata eretta da un re lebbroso.»
«Dove si troverebbe quella città?» chiese il monaco.
«Ho udito parlare del lago misterioso di Tuli-Sap,» disse il Cambogiano.
«Se Sommona Kodom ti ha ispirato, tu devi parlare subito al re, onde si organizzi una spedizione che vada a cercare nella città del re lebbroso il driving-hook.»
Il puram scosse la testa, poi fissando sul monaco, che lo guardava con stupore, i suoi occhi obliqui dal lampo giallastro, gli disse:
«Tu che sei uomo di religione, credi che Sommona Kodom mi sia apparso in sogno per indicarmi veramente il modo con cui il Siam potrà riavere i S’hen-mheng?»
«Sì, giacché tu lo avevi pregato una notte intera.»
«Ebbene, io dò a te l’incarico