Emilio Salgari

La tigre della Malesia


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in maniera da fulminare con i suoi sei o sette pezzi i due legni corsari, che certamente non dovevano trovarsi a tutto loro agio in quel terribile duello, dove tutti i possibili svantaggi erano a loro conto. Sandokan stesso parve inquietarsi di quella manovra.

      – Il nemico ci schiaccerà! – esclamò egli. – Se non l’abbordiamo tra cinque minuti saremo battuti.

      In un salto si precipitò sotto coperta. I quindici uomini remigavano furiosamente coi pugnali fra i denti facendo sforzi sovrumani, incoraggiandosi col gesto e coll’esempio, promettendosi reciprocamente morti e sangue. Non occorreva di più per fargli raddoppiare le forze che toccavano l’estremo. – Non perdete un colpo di remo! Il nemico ci fugge! – gridò Sandokan arrivando fino ai banchi.

      – Tuoni di Satana! – esclamò il Malese che tendeva i muscoli fino a farli quasi scoppiare.

      – Dobbiamo adunque salire in coperta coi moschetti? – domandò un Daiasso.

      – Silenzio! Ai remi! Ai remi! – comandò Sandokan.

      Un nuovo colpo di cannone scoppiò al largo. Una palla di piccolo calibro, facendo saltare una tavola due piedi sotto il ponte, scoppiò nella stiva a pochi passi da Sandokan, che rimase impassibile. Una scheggia rimbalzando contro un’âncora, andò a fracassare la testa di un remigante che rotolò senza gettare un grido sotto i banchi spruzzando i compagni di sangue e di cervella. – Vedete che la danza comincia – disse freddamente Sandokan e risalì in coperta mentre i suoi uomini remigavano furiosamente inebbriandosi nel sangue dell’estinto compagno.

      – Quel dannato là non perde i suoi colpi – mormorò Patau. – Ecco che si sveglia.

      – Fuoco, Patau! Rompi le ali e fa saltare quella dannata batteria! – gridò Sandokan.

      Ancora il legno nemico lo prevenne. Due colpi di cannone scoppiarono simultaneamente e due palle prendendo due diverse direzioni giunsero ancora una volta a destinazione. I due prahos ricevettero la scarica in pieno ventre e lo scoppio che ne seguì portò la morte di due remiganti.

      – Ah! miserabile! – urlò Patau. – È così che si risponde. Aspetta un po’, vedrai!

      Per la seconda volta accostò la miccia al cannone. La detonazione non era ancor terminata che il legno nemico parve incendiarsi. Un uragano di ferro volò sui due prahos allora lontani quattrocento passi, a cui risposero urla di furore e le scariche delle spingarde di poppa. Pirati, remi e artiglieri andarono sottosopra sotto il nembo di mitraglia; i due prahos furono rasati come pontoni.

      Non avea ancor finito la scarica che ne seguì una seconda, poi il legno da guerra avvolto in nembi di fumo, crepitante sotto la moschetteria che grandinava palle sul nemico reso impotente in mezzo a quella tempesta che sfasciava i deboli suoi legni, si mise a indietreggiare a tutta velocità portandosi fuori di un possibile abbordaggio a seicento metri più lontano.

      – Ah! miserabile! – urlava Sandokan rimasto illeso fra quell’uragano di scaglie.

      Patau e due uomini rovesciati dalla caduta del trinchetto e dal cannone a metà sprofondato sul castello schiantato, si rizzarono quasi subito. Il pezzo d’artiglieria, trascinato in mezzo al ponte solcato in mille guise dal ferro nemico, fu in batter d’occhio caricato e puntato.

      – Abbiamo da continuare la manovra? – domandò il Malese che si accingeva a rispondere ancora.

      Sandokan non rispose. Egli guardò il legno nemico lontano un chilometro e più che fumava puntando le artiglierie verso la costa e che virava di prua con insolente provocazione, forte del suo diritto e dei suoi potenti mezzi. Egli misurò coll’occhio la distanza, guardò i prahos e si morse le labbra. Tirar innanzi, inseguire quel nemico fuggente che aveva il vento nel ventre e sì numerose artiglierie, sarebbe stata una pazzia. I due prahos di già seriamente avariati era da vedersi sarebbero stati sfasciati ancor prima di giungere all’abbordaggio. Tanto valeva farsi uccidere sotto la costa da pari a pari, in terra, petto contro petto, arma contro arma. Egli si avvicinò a Patau.

      – Noi abbiamo preso una falsa via – diss’egli. – Il nemico è più forte di quanto credevo. Non vedi tu che ci sfugge quando tentiamo abbordarlo? Un cannone contro sei, è troppo!…

      – Lo so bene io. Se non avesse la macchina nel ventre! – rispose il Malese quasi ferocemente.

      – E due soli cannoni – aggiunse uno dei pirati che succhiavasi il sangue colante da un dito mozzato.

      – Un’ultima prova, Patau. Fammi largo, va a rianimare i miei uomini nella stiva, fa avvicinare il prahos, lega i due legni assieme. Due cannoni e due spingarde possono ben far ruggire la tigre e mordere il leone che fugge come un codardo… Va, Patau, va! Se giungo ad abbordarlo ti prometto cento cadaveri.

      Il Malese scomparve nella stiva e ne uscì un momento dopo traendosi dietro il drappello ridotto a soli dodici uomini. Con un fischio chiamò gli uomini dell’altro prahos. Il restante della manovra si compié con fantastica rapidità; i legni si trovarono ormeggiati, formando un sol ponte che presentava una formidabile batteria al nemico, ancor prima che questi potesse comprendere il piano del pirata.

      Dinanzi alla batteria venne gettato tutto ciò che poteva servire per un riparo. Botti ripiene di palle, rottami, âncore, vecchi cannoni inchiodati che formavano parte della zavorra, e dietro a quella barricata si affollarono i pirati colle mani raggrinzate sulle carabine e i denti stretti sulle lame dei pugnali che scintillavano fra le labbra frementi. Otto uomini, i feriti, ma ancor robusti manovravano di remi al di sotto dei ponti, che scricchiolavano sotto i piedi dei combattenti anelanti carneficina.

      La nave da guerra aveva allora arrestata la mossa retrograda. La ciminiera smozzata eruttava nubi di fumo e le ruote mordevano le acque spumeggianti. Essa si avanzava diritta alla batteria galleggiante colle gole fumanti dei cannoni puntati sul nemico e lo sperone a metà sommerso quasi avesse l’audace progetto di cozzarvi contro. Era quello che aspettava Sandokan.

      Un minuto dopo i cannoni da ambo le parti ricominciavano la musica infernale. Si rispondeva colpo per colpo, palla per palla, mitraglia per mitraglia. Le due macchine da guerra si fulminavano a vicenda, in un duello mortale, movendosi incontro, proteggendosi con uragani di ferro, che sibilavano nell’aria e che mordevano tigre e leone, frantumando attrezzi, atterrando uomini.

      Non si scorgevano quasi più, avvolti com’erano tra nembi di fumo che una calma assoluta manteneva al di sopra dei ponti, ma che montava? Da ambe le parti si ruggiva con egual furore, da ambe le parti si mordeva malgrado la sproporzione dei mezzi e delle forze.

      I due prahos non la cedevano al vascello. Lampeggiavano, eruttavano ferro, non perdevano né un colpo, né un momento che poteva a loro costare una completa rotta. Forati, rasati, schiantati di tavole, sdrusciti, avanzavano non ostante la tempesta di palle che struggeva lo scarso quanto coraggioso equipaggio. Il delirio si era impadronito di quegli uomini che scemavano a vista d’occhio sotto il tiro micidiale del numeroso nemico, che si teneva sempre fuori di portata di un abbordaggio dove avrebbe potuta avere la peggio.

      Patau, fedele alla parola data, aveva arrestato col suo petto la palla tirata sul suo cannone, ed era morto al suo posto, ma che montava? Gli artiglieri dei due prahos erano per metà fuori di combattimento, gli uni senza braccia dalle cui ferite uscivano torrenti di sangue spumoso, gli altri coi fianchi squarciati dalla mitraglia e il rimanente morti, ma che valeva? Nuovi artiglieri manovravano ai pezzi, uno dei quali era stato smontato, e facevano bravamente il loro dovere forando, spezzando, struggendo, e dietro a essi si affollavano tutti gli altri, anelanti, anneriti malgrado il fosco colore delle loro pelli dalla polvere dei cannoni e dei moschetti.

      Il ferro turbinava attorno ad essi, staccava braccia e forava petti, troncava gambe e fracassava teste, sibilava sui ponti facendo saltar le tavole, schiantando le murate, tracciando solchi profondi nei più duri legni. Il fumo avviluppava quei due poveri legni corsari ridotti a brani, che non avevano più l’apparenza di velieri, ma sopra di essi ruggivano ancor delle tigri affamate, assetate di sangue che calpestavano i cadaveri dei compagni per farsi innanzi, che guazzavano nel sangue, che agitavano le armi, che chiamavano, che insultavano, che urlavano contro il nemico che sfuggiva l’abbordaggio.

      Si vedevano volti foschi, raggrinzati pel furore, occhi iniettati