moschettate colla speranza di abbattere a ogni colpo un nemico e in mezzo ad essi, Sandokan, che colla scimitarra in pugno rianimava i combattenti fra un nembo di palle che saltavano e fischiavano a lui dintorno, ora bestemmiando e comandando con una voce che risuonava come una tromba fra tutte quelle detonazioni e quegli scoppi e che ora diventava ruggente come il ruggito della Tigre della Malesia di cui egli ne portava il nome.
La terribile battaglia durò venti minuti, non di più. D’ambe le parti vi fu una breve sosta durante la quale Sandokan, prevedendo la completa disfatta dei suoi, comandò la ritirata.
Il nemico incalzava valendosi delle sue potenti artiglierie, sei volte maggiori di quelle che possedevano i pirati ridotte si può dire a un nulla. I due prahos tutti sdrusciti, tutti un foro, mezzi pieni d’acqua che continuava trapelare malgrado i tappi frettolosamente cacciati dai pirati, non si mantenevano più a galla, e non erano più in caso di tener ancora testa in pieno mare a quel vascello ferrato. Artiglieri e marinai non erano in un miglior stato: ci voleva assolutamente la ritirata per non venire totalmente schiacciati, e la ritirata, comandata per la prima volta in tanti anni di pugne dalla Tigre, cominciò lenta lenta per quanto lo permettevano gli uomini di bordo gran parte dei quali erano morti o feriti.
Il legno da guerra non per questo si arrestò, e parve deciso a inseguire i due legni fino sotto costa malgrado la poca profondità delle acque e i numerosi banchi subacquei.
Arrestò la sua mossa retrograda e cominciò avanzarsi a piccolo vapore, eruttando pari a vulcano fumo e fiamme.
Le palle ricominciarono a grandinare fitte fitte sui due poveri prahos, facendoli a brani. L’opera di distruzione ricominciò più tremenda di prima.
– Ah! ricominci adunque, nave maledetta! – esclamò Sandokan con indicibile accento. – Seguimi sino alla costa, vieni assalirmi laggiù al fiume se hai del coraggio, lancia i tuoi uomini a terra. Darei tutto il mio sangue per misurarmi petto a petto coi tuoi marinai.
Egli volse uno sguardo attorno e misurò la distanza che lo separava dalla costa. Vi erano quattrocento metri ancora da percorrere, distanza sufficente per venire completamente schiacciati prima di giungere alle prime scogliere.
Egli mandò una bestemmia, fece un salto da tigre e scartando col rovescio della scimitarra tre uomini avventossi sul cannone di prua ancor fumante.
– Tutti a bordo del mio prahos! – gridò con voce tonante. – Taglia le corde! Tutti ai remi! Se si vuol giungere salvi alla costa bisogna raggiungerla in meno di quaranta secondi.
I pirati sparsi sui due ponti si slanciarono su quello di Sandokan che pareva essere in miglior stato dell’altro. Le corde furono tagliate, la carcassa abbandonata alle onde coi suoi cadaveri e coi suoi due pezzi smontati, e gli uomini che ancor avevano delle braccia scesero nella stiva affollandosi ai remi. Sandokan e tre artiglieri rimasero soli sul ponte a rispondere al fuoco del nemico.
– Orsù, figli miei, del coraggio! – disse Sandokan, acquistando quella calma che occorre a un artigliere. – Siamo stati respinti se non battuti; la danza continua e noi danzeremo!
Quell’uomo singolare, senza curarsi delle scariche tremende del nemico che fulminava il prahos, si accostò con tutta calma al suo unico pezzo soffiando sulla miccia, con l’occhio in fiamme che tradiva la collera. Egli si curvò sul pezzo mentre il legno volava verso la costa.
– Aspetta, miserabile, ti fracasserò il tuo pezzo di prua!
Lo scoppio accompagnò l’ultima parola. Sandokan fece un salto innanzi in mezzo al fumo quasi volesse seguire coll’occhio l’invisibile palla, cui egli avea saputo dare una direzione infallibile. Un momento dopo una nube di fumo si alzò da prua dell’incrociatore, e le tavole del castello saltarono assieme al pezzo designato ed agli uomini che lo manovravano. Egli sorrise.
– Colpo per colpo – mormorò egli mentre i suoi uomini caricavano il cannone.
Una palla partita dal legno nemico sibilò alle sue orecchie. Gli mancò il respiro, mentre una seconda rimbalzava sull’ancorotto e scoppiava rumorosamente nella stiva al di sotto del cassero.
– Oh! Oh! La cosa diventa seria. Aspetta un po’, aspetta! – muggì egli.
Il suo secondo colpo partì fortunato come il primo. La maistra spaccata a due piedi sopra il ponte precipitò attraverso la prua con tutti i suoi uomini delle coffe e dei pennoni. Una ventina di marinai caddero in mare. Il fuoco della nave si arrestò quasi subito per dar tempo ai suoi di cominciare l’opera di salvataggio. Quel momento di tregua bastò per salvare il prahos, che a tutta forza dei suoi quindici remi guadagnò la costa cacciandosi nelle paludi del fiumicello.
Era tempo. Il povero legno corsaro empito a metà d’acqua non si sosteneva più; affondava lentamente sotto il peso, gemeva come un morente che non sa decidersi abbandonare la vita. Sandokan, che abbandonato il cannone aveva ripreso la ribolla, dovette arenarlo per impedire di andarsene completamente a picco. I suoi uomini uscivano allora dalla stiva dove l’acqua giungeva fino ai loro fianchi. Avevano abbandonato i remi per impugnare le armi pronti a ricominciare la lotta sempre con l’eguale coraggio e coll’egual ferocia. Sandokan li arrestò con un gesto e li chiamò intorno a sé, mentre che sul mare il cannone continuava a tuonare contro il prahos abbandonato che a poco a poco sprofondava.
– Non una parola – disse Sandokan quando li ebbero contati. – Quindici uomini perduti, quindici di meno che rivedranno Mompracem e nulla di più. Siamo ancora forti, e il vascello, in non miglior stato di noi, è ancora là ad aspettarci. Noi andremo ancora in mare ad attaccarlo.
Nessuno di quegli uomini disse verbo, tanto erano obbedienti e tanto credevano alla voce del capo. Solo Sabau si fece innanzi, non per fare osservazioni e meno ancora per lamentarsi benché avesse un braccio ferito da una scheggia di mitraglia, ma per reclamare il suo diritto.
– Patau è morto – disse il Malese. – Debbo prendere il suo posto?
– È giusto – rispose Sandokan. – Vedi, mio bravo Malese, siamo stati respinti, ma non battuti, da un nemico che si nasconde dietro il ferro, che rugge più di noi e che ha più denti. Non possiamo rimanere noi, i pirati di Mompracem, prigionieri su quest’isola che è terra di loro. Il nemico ci spia, ci taglia la ritirata perché è forte. Ci faremo ammazzare ma è d’uopo che abbandoniamo oggi queste coste che domani saranno nostre. Mi comprendi tu, Sabau?
– Si tratta di sforzare il passo, ecco tutto – rispose il Malese. – Giacché l’ordinate, si farà.
– Sì, lo si farà – risposero in coro, ma con truce espressione i pirati affollati attorno il capo.
– Sono le sei – continuò Sandokan guardando il sole. – Fra tre ore tutto sarà oscuro, non vi sarà lume di sorta, le tenebre saranno con noi. Usciremo in pieno mare e senza trar cannonate in silenzio come ombre, e quando il nemico si accorgerà della gherminella noi saremo a Mompracem.
– E poi? E poi? – domandarono i pirati, le cui dita fremevano stringendo le armi.
Sandokan si mise a sogghignare:
– Poi – diss’egli con voce cupa, – vi farò vedere Labuan rischiarata dagli incendi, vi farò vedere ruscelli di sangue umano scorrere pei boschi, e vi farò vedere una montagna di scheletri!
Volse le spalle alla sua banda che applaudiva freneticamente e andò a sedersi con Sabau a prua, puntando il cannone verso l’ingresso della foce, in maniera da poter difendere l’entrata contro un possibile attacco.
I suoi uomini, curati in furia i feriti, senza che questi emettessero il più piccolo lamento quantunque ve ne fossero di quelli ai quali la mitraglia aveva scarnato orrendamente braccia e gambe, si rimisero a lavorare con un ardore che giungeva al delirio.
Bisognava nelle tre o quattro ore che rimanevano rendere quel prahos sconquassato e sdruscito, navigabile se si voleva sfuggire la notte stessa alla crociera. Il lavoro fu subito cominciato da quei pirati, in mezzo ai quali trovavansi dei carpentieri che avrebbero dato dei punti a carpentieri europei e marinai cui nulla era impossibile.
Cominciarono a turare i fori fatti dalle palle con tappi di diverse grossezze, turare le lacerature fatte dalla mitraglia, mediante