Guido Pagliarino

Il Vero E Il Verosimile


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l'uomo aveva continuato, e seguitava, a presentarsi quasi ogni mese in azienda chiedendo e ottenendo di parlare col cavaliere. Si sospettava, per alcune spiate dietro la porta da parte del Fringuella, che l'industriale elargisse all'altro somme di denaro. La certezza era venuta finalmente una volta che, apposta, nulla fingendo, il direttore amministrativo era entrato nella stanza e, scusandosi per il disturbo, aveva colto il Pittò pagare il Dialzi. Appena l'altro s'era congedato, il principale, rosso in volto, s'era avvicinato al dottore e aveva biascicato, come a scusarsi – ma chi avrebbe potuto credergli? –: "Dopotutto, fa pena, no?"

      Ricatto?

      Intanto, da voci pettegole di fabbrica, soprattutto dal Fringuella, il giovane aveva presto raccolto le poche notizie disponibili sul Dialzi. Questi, orfano d'entrambi i genitori, sedicenne era stato assunto dal cavaliere nella sua neonata azienda artigiana, come tuttofare, paga quasi inesistente, vitto e alloggio in laboratorio. Lavorando senza badare a orari e a guadagni e adulando alquanto il cavaliere, ch’era uomo sensibilissimo alle lusinghe, era salito di grado, parimenti all'ingrandirsi della ditta, anche perché, certamente intelligente, studiando di sera era riuscito a diplomarsi ragioniere. Era dunque divenuto direttore amministrativo della Pittò, ma con stipendio da semplice impiegato. Una delle cose che, contro la giustizia, il cavaliere apprezzava di più era che un dipendente costasse meno della funzione che ricopriva e, insieme, non se ne lamentasse. Non capiva che ciò poteva significare minore competenza, o difficoltà a trovare un posto per l'età non più verde, così come per il Fringuella, col rischio, quindi, d'un minor attaccamento al lavoro se non di rancore per lo sfruttamento subito. Infine, quella lesina poteva, persino, costituire un'involontaria istigazione a rubare e proprio così, Bruno pensava, poteva essere stato per il Dialzi, come illecita integrazione, sia pur eccessiva, dell'inadeguato stipendio. Solo il direttore tecnico, coi suoi due diplomi ma nessuna laurea, era contento della propria paga, inferiore a quella d'un ingegnere ma superiore allo stipendio d'un perito; e soddisfattissimo era di lui il cavaliere perché quell'uomo, appassionato della sua professione, trovava soluzioni e proponeva innovazioni che si rivelavano sempre a puntino. Aveva, tra l'altro, creato una polvere che, mescolata all'acqua, formava una sostanza spalmabile e modellabile, utilissima agli appassionati di trenini e ai modellisti in genere per costruire plastici; infatti, ben presto asciutta, diveniva durissima, capace di sostenere pesi molto gravosi pur quando stesa in sottili strati. Per quel solo scopo il cavaliere l'aveva fabbricata e messa in vendita, sebbene il prodotto, peraltro mai da lui brevettato, si prestasse di certo a più vasti e utili usi. Il Pittò l'aveva battezzato, con titanica espressione: Polvere per costruire montagne; molto se ne vendeva a ingrossi e negozi di modellismo e giocattoli, in Italia e all'estero, e veramente un buon guadagno aggiunto ne era venuto, essendo basso il costo di produzione e non avendone avuto il perito Tirlotti alcun compenso extra, perché "aveva creato in orario di lavoro e con le attrezzature della fabbrica."

      Bruno, che nessuna paga riceveva, avrebbe dovuto essere tra i collaboratori più apprezzati dal titolare zio e, per la verità, così era stato all'inizio. Inoltre, aveva goduto d'un singolare privilegio: il Pittò, il primo giorno, dopo la visita della fabbrica, l'aveva ricevuto nel suo ufficio e, sedutosi sulla dirigenziale poltrona dietro la presidenziale scrivania, innanzi a lui Bruno in piedi e quasi sugli attenti, gli aveva indirizzato un fervorino improvvisato di benvenuto e l'aveva autorizzato, unico in fabbrica, a non chiamarlo cavaliere, ma semplicemente zio. Il giovane così avrebbe fatto spontaneamente anche senza quel beneplacito ma, per la forma, gli aveva detto: "Grazie"; e l'altro ne era rimasto tutto compiaciuto, come chi avesse elargito chi sa che; ma aveva soggiunto: "Naturalmente, parlando di me con gli altri, non dirai mio zio ma il cavaliere." L'aveva, quindi, affidato alle cure del dottor Fringuella e nominato seconda autorità dell'ufficio amministrazione, scrivania appena più piccola di quella del direttore e che portava una gran targa con inciso Bruno Seta - Vicedirettore amministrativo; questo, invero, aveva fatto provare al giovane apprendista un non piccolo piacere. Purtroppo il cavaliere, sempre desideroso di risparmi, circa due anni dopo si sarebbe lasciato scappare con l'ormai esperto Bruno: "Così terremo solo te e manderemo via quel mangiapane a tradimento del Fringuella", e proprio mentre quell'altro, forse già sospettando, era lì a due passi, dietro la porta, ad ascoltare. Invano il giovane aveva poi rassicurato il dottore che lui non ci pensava neanche di prendergli il posto; da quel momento, e non per sua colpa, l'avrebbe avuto per nemico.

      Oltre alle mansioni di vertice, quasi ogni giorno ce n'erano state altre, assai meno nobili ma che il titolare ben più apprezzava. Per non mantenere due furgoni con autista, di cui uno sarebbe stato usato solo parzialmente, per le consegne minori lo zio s'era comprato a suo tempo un macchinone familiare perché servisse, oltre che di rappresentanza, a consegne di merce nella zona, a cui lui stesso aveva provveduto fin all'arrivo del nipote, ma rischiando, negli ultimi tempi, non pochi incidenti per il recente accecamento d'un occhio dovuto a una cataratta mal operata. Dunque, Bruno aveva avuto, al suo posto, l'incarico di fattorino di complemento in Mercedes Benz. Per buona misura, il cavaliere gli aveva conferito la mansione di suo autista personale. Infatti l'altro corriere dipendente, prima adibito, con cappello da chauffeur, anche a tal compito, e in ore che avrebbero dovuto invece essere libere, non avendone mai avuto compenso straordinario s'era infine lamentato col Fringuella, che l'aveva sostenuto col principale. Allora, il Pittò aveva trovato la semplice e immediata soluzione di nominare il gratuito nipote a quel posto: "Prova se ti va bene il berretto di quel pelandrone", gli aveva ordinato con noncuranza, porgendoglielo.

      Il giovane, più stupito che seccato, aveva, come rifiuto, risposto con una domanda retorica: "…ma che figura faresti, col tuo vicedirettore ed erede a farti da autista? Direbbero che sei povero."

      Per quest'ultima magica parola, il cappello era stato riappeso e i due si sarebbero presentati in pubblico sull'auto padronale, ogni volta, come i parenti che, bene o male, erano, Bruno al volante senza il cappello e il mal vedente zio seduto non dietro, ma al suo fianco.

      Grazie a quella straordinaria mansione, il giovane aveva conosciuto, a feste e riunioni d'affari, decine di industriali di quei tempi, protagonisti di quello che si sarebbe chiamato miracolo economico. Molte delle loro aziende, per la congiuntura negativa della metà degli anni '60, avrebbero presto serrato. Solo alcuni di quegli imprenditori, soprattutto per i loro figli e nipoti i quali, diversamente da loro, erano stati educati in scuole economiche, avrebbero visto crescere le loro ditte che, ormai scomparsi i fondatori, sarebbero giunte, decenni dopo, a dimensioni mondiali.

      In verità, non molti degli industriali che aveva conosciuti erano piaciuti a Bruno. In tanti di loro erano presenti, e gravi, la molta boria e la poca scuola, la maleducazione coi sottoposti e la brutalità contro tutti coloro che, avendone le stesse misere origini, non avevano saputo innalzarsi alla ricchezza; e le loro mogli, solitamente, eran peggiori dei mariti, e senza il merito intelligente d'aver saputo creare posti di lavoro. Verso le persone colte, poi, se, davanti, quegl’imprenditori manifestavano rispetto e cortesia, dietro, parlandone tra loro o in famiglia, esternavano disprezzo. Certo molta era l'invidia per gl’intellettuali; ma essenzialmente per i loro titoli accademici: quasi tutti quegl’industriali erano, infatti, in gran corsa per accaparrarsi cavalierati o commende della Repubblica, come se il titolo solo fosse contato, non la cultura. I più, inoltre, erano bramosi di adulazione.

      Il Pittò non era diverso. Bruno, che di natura era nemico d’ogni lusinga, mai avendo elogiato il prozio se lo sarebbe, pian piano, trovato avversario. Inoltre, da alcune sue frasi, aveva capito che il cavaliere, in cuor suo, si dispiaceva che il nipote fosse iscritto all'università e che un giorno sarebbe stato un dottore. Proprio per gli esami sarebbero nati i primi gravi contrasti fra di loro. L'imprenditore molto si adirava ogni volta che Bruno era assente per un colloquio o uno scritto. Una volta che il giovane aveva avuto da sostenere due esami a brevissima distanza, era ormai passato quasi un biennio dal suo ingresso in fabbrica, alla richiesta d’un permesso di due o tre giorni per ripassare, il Pittò aveva gridato al nipote: "Qui si lavora, non si fa l'universitario delle palle! Ma sei idiota? Tu sei un industriale e perdi tempo con quelle stupidaggini da impiegatucci?"

      Bruno, al pensiero che lavorava gratis, senza orari fissi e pure in mansioni che non avrebbero dovuto essere le sue, ed essendo in tensione per i pesanti studi notturni, non era riuscito a trattenersi e gli