Guido Pagliarino

Il Vero E Il Verosimile


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di perdono; in una, sottolineata, l'accusa al Pittò d’essere stato irriconoscente, ché molto della bellissima posizione che aveva raggiunto era da attribuirsi a lui, il sottopagato collaboratore tuttofare.

      Era venuto in chiaro che il Dialzi era figlio naturale dell'industriale, avuto, prima del matrimonio con la prozia, da una donna che non era nominata, morta subito dopo il parto, e affidato immediatamente dal padre a un orfanotrofio, ma seguito poi sempre da lui che, alla giusta età, l'aveva preso con sé in azienda. Mai, però, l'aveva voluto riconoscere, perché troppo temeva il parere della gente: in quegli anni cose del genere potevano infatti chiudere l'accesso all'ambiente borghese, perché erano considerate colpe vergognosissime; non si pensava che, semmai, colpa era l’abbandonare un figlio come orfano.

      Il cavaliere pagava il Dialzi per timore che rivelasse la sua origine? No, era invece per affetto e il figlio stesso lo riconosceva in quegli scritti. Semmai, doveva essere lui a non provare affatto amore per il padre naturale; anzi, tra le righe s'insinuavano disprezzo e rabbia. A suo tempo il Pittò, com'era chiaramente scritto, aveva fatto al figlio la promessa di lasciarlo erede. Poi, disgustato dai furti, scacciandolo, l'aveva ritirata; ma non col cuore di non più rivederlo. Neppure aveva resistito all'impulso di dargli denaro, almeno fin a quando ciò era stato possibile, e ufficialmente con la scusa d’un prestito da restituire non appena l'altro avesse trovato un nuovo lavoro.

      Il Dialzi sarebbe morto tre mesi dopo lo scasso della cassaforte, sfracellato in un burrone sulla sua fuoriserie acquistata a cambiali, dopo aver perso gli ultimi liquidi in una bisca.

      Bruno aveva riposto le lettere in cassaforte prima che il Fringuella, il quale aveva portato il contratto a fotografare, lo rimettesse a posto: a quei tempi, le comode macchine fotocopiatrici erano ancora un bel sogno.

      Nulla mai Bruno avrebbe detto allo zio; si sarebbe confidato col padre, ma solo alla notizia della morte del Dialzi pubblicata dai giornali.

      Il cavaliere era tornato al lavoro una settimana dopo l'apertura della cassa blindata e, trovatosi di fronte al fatto compiuto, era stato contento che gli altri avessero deciso per lui, perché la iella, come aveva detto al nipote fingendo di scherzare, sarebbe caduta su di loro.

      Sebbene la produzione fosse ormai iniziata da giorni, forte era il timore di non riuscire a consegnare puntualmente; a suo tempo il principale avrebbe fatto meglio a recarsi a Roma col perito, invece che col nipote portaborse. Il Tirlotti avrebbe potuto manifestare alla controparte che il tempo fissato per la consegna era imprudentemente vicino e chiedere una scadenza un po' più distante; e se non fosse stato possibile, almeno non si sarebbe firmato il contratto. Peggio, s'era poi perso tal tempo all'inizio, che non era ormai probabile una spedizione puntuale.

      Purtroppo l'accordo, come temuto dal dottor Fringuella, prevedeva, anche solo per un lieve ritardo, il mancato ritiro della merce, nessun pagamento e il diritto a una grossa cifra a titolo di risarcimento; e s'era riusciti a spedire a tempo soltanto un piccolo acconto di merce. Invano il direttore amministrativo aveva cercato d’ottenere dilazioni: il materiale doveva servire per un film storico colossal, coproduzione italo americana, qualche miliardo di lire d'allora di spesa2 , attori provenienti da mezzo mondo, e non si poteva ritardare neppure d'un giorno l'inizio delle riprese. Stavano usando la solita cartapesta al posto della polvere per costruire montagne, avevano sentenziato al telefono contro il dottore; quanto all'acconto, era loro pieno diritto contrattuale di trattenerselo, a titolo di prima rata del risarcimento. Proprio un bell'accordo ghigliottina aveva firmato il cavaliere! Insomma, era stato un disastro; e pensare che, con una sola settimana in più, lavorando a pieno ritmo si sarebbe riusciti. Colpa del Pittò, senza dubbio, per la sua maledetta superstizione.

      Cosa fare? Un bel niente; erano stati gli altri che avevano fatto, e immediatamente: una severissima lettera del loro avvocato che domandava, perentorio, il saldo della penale.

      Il cavaliere aveva impulsivamente accusato il dottor Fringuella d'aver dato ordine di produrre senza il suo consenso: "...e adesso potrei chiedere io i danni a lei, per la merce trattenuta dal cliente e quella invenduta nei magazzini!"

      "Lei è un imbecille!" gli aveva sparato in risposta, insultandolo per la prima e non ultima volta, l'inviperito direttore amministrativo, con la bocca a pochi centimetri da quella del principale e spruzzandogliela di saliva e fiele.

      Intimidito, girati i tacchi, l’altro se l'era svignata, battendo come al solito le mani tra di loro, ma debolmente e solo sospirando: "Schifoso, schifoso..."; però, non appena l'imprenditore era svoltato nel vicino corridoio, il rumore dei suoi passi, improvvisamente, era stato coperto da un altro inequivocabile suono, il rintronare d'una formidabile, intrattenuta scoreggia e a questa era seguito, quasi altrettanto potente, un disperato: "Dottore delle palle!"

      Il Fringuella era corso verso la voce, ma giunto al corridoio non aveva più trovato nessuno, talmente il cavaliere era stato lesto nell’eclissarsi.

      Negli ultimissimi tempi il direttore aveva preso, o ripreso, a bere smodatamente, non solo a pranzo ma, come si capiva dall'alito al suo arrivo, fin dalla prima colazione. Era quindi divenuto, a poco a poco, nient’affatto utile alla ditta, per non dire dannoso; e aveva preso l'abitudine d'aggredire, a parole, non solo il Pittò ma pure l'erede. Bruno si chiedeva se l'uomo, sotto spirito alcolico, vedesse per caso riflessa su di lui parente l'immagine dello zio e lo colpisse per toccare indirettamente l'ormai spregiato principale. Forse sì, ma non era solo quel pensiero a muovere il dottore alla villania. Un giorno l'uomo s'era scoperto, scoccando contro il giovane, freddo, freddo e fissandolo negli occhi: "Son due mesi che i dipendenti non vengono pagati, me compreso. Perché suo padre non finanzia la nostra azienda? Non le pare che sarebbe doveroso?"

      "…ma cosa dice?!" s'era allarmato Bruno.

      "Dico, caro mio, che la vostra posizione è dovuta al Pittò, ed è ora che ricambiate."

      "La nostra pos..."

      "Sì, parlo turco? La vostra posizione. Lo sanno tutti che fu lo zio a finanziare a fondo perduto l'ufficio del dottor Seta" – Bruno era a bocca aperta – "e che fu lui a regalarvi l'alloggio dove abitate, per affetto verso la sua defunta mamma, che trattava come la figlia che non aveva potuto avere dalla moglie."

      "La figlia, la moglie, la mamma... Si riferisce forse a mia madre?"

      "Sì; perché, lei non ha avuto forse una mamma?" l'aveva dileggiato con un ghigno.

      "…ma se il cavaliere ha conosciuto mia zia quando mia madre era già morta!"

      Il Fringuella stava per replicare, ma il giovane: "Lo studio era già addirittura di mio nonno e così pure l'appartamento. È chiaro o no?"

      Il dottore l'aveva fissato, storcendo di più la bocca in un peggiore sogghigno, come a dirgli: "A chi la racconti?"

      Bruno s'era irrimediabilmente adirato: "La pianti di guardarmi in ‘sto modo, deficiente!"

      L'altro allora, ad alta voce come lui, ma senza alzarsi dalla sedia dov'era stravaccato: "Bugiardo! Sono anzi convinto che, in questo momento, il Pittò stia nascondendo dei soldi presso suo padre, in attesa del fallimento."

      "È pazzo?" e, preso lo schienale con le due mani, aveva rovesciato a terra il Fringuella. Poi, era corso a cercare lo zio. In verità, s'era subito dispiaciuto di quell'aggressione: in fondo, l'uomo era di certo brillo e non era più un ragazzo. Non poteva, però, tornare a scusarsi: sarebbe stato come far intendere al direttore ch'egli avesse avuto ragione in tutto. Il rimorso gli sarebbe rimasto.

      Trovato il cavaliere, mentre già stava per riferirgli l'accaduto, Bruno s'era ricordato tuttavia, improvvisamente, della prima volta che il Fringuella aveva accennato all'argomento, quando gli aveva detto che era al Pittò che la famiglia Seta doveva la propria posizione, e lui aveva ingenuamente capito che si riferisse solo alla promessa d’associarlo nell'azienda. Così non era stato delirio alcolico? No: aveva sentito a quel punto, con assoluta certezza, che non s'era affatto trattato di un'invenzione del dottore, ma ch’era stato il parente a far correre quella voce. Perciò, invece di riferire, gli aveva chiesto secco, a voce alta