Joey Gianvincenzi

Le Regole Del Paradiso


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dall’aula” ordinò severamente Flores.

      â€œProf stavo…”

      â€œHo detto esca immediatamente dall’aula!”

      Mentre Allen si alzava svogliatamente per abbandonare l’aula, Jane prese un pezzo di carta e ci scrisse sopra la risposta. Era un’abitudine che aveva preso fin dalle scuole elementari: scrivere su un foglio tutte le risposte che gli altri non riuscivano a dare. Ashley, che le era seduta davanti, capì cosa aveva scritto e glielo strappò dalle mani. Sapeva della sua curiosa abitudine.

      â€œProfessore?” fece Ashley alzando la mano.

      â€œCosa c’è signorina Trevor?”

      â€œComunque Socrate è nato ad Atene nel 470 avanti Cristo circa ed è morto nella stessa città nel 399” disse con decisione.

      â€œOttimo Trevor. Complimenti”.

      Lei gli sorrise e accartocciò il bigliettino. Le sue amiche le alzarono il pollice.

      â€œVedete? Anche la vostra compagna è preparata. Prendete esempio. Lei lo sapeva, signorina Madison?”

      Ashley si girò e le lanciò uno sguardo di fuoco allargando le palpebre.

      Dopo un attimo di esitazione rispose: “No, professore”.

      * * *

      Non appena uscì dal liceo, Jane fu sorpresa da una feroce spallata di Ashley. La ragazza si limitò a raccogliere il libro che le aveva fatto cadere senza badare più del dovuto al colpo. Il suo carattere purtroppo, estremamente docile e tollerante, non le aveva mai permesso di farsi rispettare a dovere da chi, fin dal primo giorno, aveva deciso di approfittarsi di tanta educazione e rispetto per far prevalere la propria falsa superiorità e la propria presunta bellezza. Neanche davanti alle torture più atroci avrebbe ammesso che Jane era di gran lunga migliore di lei, a partire dalla mente, sveglia e acuta, alla bellezza estetica, delicata, ma ferma, evidente senza mai cadere nel volgare.

      In ogni caso, le considerazioni giornaliere sul rapporto burrascoso e antipatico che aveva instaurato con Ashley, si volatilizzarono non appena si trovò davanti al cancello grigio di casa sua. Se avesse dovuto descrivere cosa provava nel momento in cui doveva entrare, non ne sarebbe stata capace. Avrebbe voluto vivere in qualsiasi altro posto, ma non lì.

      L’imponente e ricercata architettura esterna dava l’impressione di essere un fantastico sogno in cui vivere liberi e felici, ma la realtà era tutt’altro: in nessun posto si sentiva così tanto prigioniera.

      Una volta spalancato il cancello, ad accogliere la ragazza - così come i rarissimi ospiti che avevano voglia di fare una visita alla famiglia Madison - c’era ogni giorno un adorabile pratino inglese che circondava l’intera casa come un vasto oceano con una minuscola isola deserta; il vialetto che conduceva alla porta d’ingresso tagliava in due il prato ed era formato da pietre triangolari di terracotta di un colore simile al rosso porpora. Inoltre, lungo il vialetto c’erano, per ogni lato, tre vasi di ceramica alti circa un metro simili a maggiordomi che accompagnavano gli ospiti in casa. Tolta l’estetica raffinata e l’attraente architettura generale, da quando aveva messo piede lì dentro fino al suo ultimo compleanno, il ventunesimo, non aveva fatto altro che sperare in una svolta, in una libertà improvvisa, in una scarcerazione dalla prigionia della grande meravigliosa e allo stesso tempo invivibile villetta. Ma fino a quel giorno non era arrivato mai nulla di simile.

      Entrò.

      In cucina trovò la sua matrigna, Ginger Dixon, davanti al passeggino della sua piccola sorellastra Alisha Madison, di tre anni.

      Ginger rappresentava, agli occhi della giovane, un canone di donna, di madre e di amica che non avrebbe mai voluto seguire; da quel genere di persone non sarebbe mai uscito qualcosa di imitabile, di prezioso, di amabile.

      â€œCiao Ginger, sono tornata” salutò entrando sorridente in cucina.

      La cosa che le saltò subito agli occhi fu ciò che vide dietro la donna. Una montagna di piatti e bicchieri ancora da lavare. Guardò la matrigna che dava da mangiare alla piccola.

      â€œCiao Ginger, sono tornata un’ora prima perché non c’era il…”

      â€œJane ti ho vista è inutile che mi saluti per la centesima volta. Ciao! Sei contenta adesso? Non vedi che ho da fare?” le disse senza neanche guardarla.

      Jane si scusò senza meravigliarsi di ricevere una risposta simile.

      Tornò quindi ad assumere lo stesso sorriso falso e svogliato di prima, cercando di far mangiare la piccola Alisha ormai stranita e propensa a farla irritare ancora di più con qualche capriccio di troppo. La ragazza invece si rifugiò in camera sua, cercando di non badare più di quanto già non facesse al pessimo rapporto che si era creato con quella donna così gelida e poco incline a qualsiasi forma di sentimento che si avvicinasse alla tenerezza o, peggio ancora, alla dolcezza.

      La ragazza, per distrarsi e scaricare alcuni residui del nervosismo che cominciava a corroderle lo stomaco, iniziò a studiare alcuni capitoli di filosofia applicando le tecniche mnemoniche più difficili che conosceva. Dopo averle utilizzate quasi tutte, però, si alzò dalla sua postazione e scese giù in cucina con un gran buco allo stomaco.

      Per qualche ragione la colf che badava alla cura e all’igiene di casa Madison da una vita non era ancora arrivata, così decise di facilitarle il lavoro iniziando a preparare il pranzo.

      Non impiegò più di un quarto d’ora e, non appena riempì tutti i piatti, fece irruzione in casa il capofamiglia: Gary Madison. Parlare di lui non era facile, così come non lo era parlare con lui. Se Ginger rappresentava la donna che non sarebbe mai voluta diventare, Gary rappresentava l’uomo che non avrebbe mai voluto al suo fianco. Si era meritato dalla ragazza il soprannome di bestia.

      â€œQuesti hamburger fanno veramente pena” sbottò Gary gettando la forchetta nel piatto.

      Jane si sentì morire. Divenne rossa in faccia, ma non osò guardare suo padre.

      â€œJane, non dirmi che hai cucinato tu”.

      Si sentiva lo sguardo della bestia addosso.

      Provò a ribattere.

      â€œLi ho fatti io. Ginger…”

      â€œGinger ha lavorato stanotte al contrario di te, stronza! Come osi tirarla in ballo?” disse alzando la voce e sbattendo con forza il pugno sulla tavola. “Non ti permetto di provare ad accusarla! Hai capito bene?”

      Jane annuì rassegnata.

      Il pranzo proseguì in un pesante silenzio. Avrebbe voluto scusarsi, ma sarebbe stato inutile. Per un attimo pensò addirittura di raccontare com’era andata la giornata a scuola per cercare di alleggerire quell’atmosfera tesa che in casa regnava perennemente, ma nessuno l’avrebbe degnata delle giuste attenzioni, quindi rinunciò. Non ci si poteva parlare di niente, ecco perché teneva aggiornato il diario dalla copertina rosa che portava sempre con sé al liceo (e che di notte nascondeva tra i libri di testo che teneva nell’armadio), su cui scriveva ogni suo pensiero, ogni avvenimento degno di nota come le riflessioni, i desideri e i sogni.

      Quel diario, testimone da sempre delle sue emozioni più profonde, non avrebbe rivelato le sue parole ad anima viva nonostante le avesse tatuate sul voluminoso corpo di carta. Guardava Jane china su di lui con gli occhi azzurri socchiusi, intenti a controllare la punta a sfera della penna che si muoveva velocissima tra le sue righe perfette; aveva l’onore di essere l’unico a sapere i piaceri desiderati e le mancanze collezionate che modellavano la vita di Jane insieme ai rari sorrisi che riuscivano a baciare le sue labbra dopo aver scalato montagne di malinconia.

      Quando aveva voglia di dare vita