Saccinto Saccinto

Zenith


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gli occhi impazzire dalla rabbia muovendosi freneticamente. Due pugni mi raggiunsero nello stesso momento, uno sul collo e uno nello stomaco. Mi piegai a terra.

      Valentino trovò lo spazio per passare e iniziò a correre pesantemente verso il buio. Il suo culo stretto nei pantaloni bianchi si agitava inutilmente per riportarlo alla vita. Mi alzai in piedi e mi misi a correre dietro di lui. Riuscii a bloccarlo lanciandomi a volo e agganciando le sue gambe poco prima che raggiungesse il corridoio oscuro che si era appena riformato. Cademmo in avanti. Strisciai sul terreno per mettermi seduto sopra di lui che si dimenava e si contorceva con i gomiti stretti sui fianchi. Mi piantò una mano sotto il mento e mi spinse la testa verso l'alto.

      Cercai di tenerlo fermo per la camicia con una mano, mentre facevo oscillare l'altra sopra la sua faccia senza riuscire a mirare. Intravidi il suo naso, calai un colpo di palmo. Valentino diede uno strattone più forte per scansarsi e la tasca si strappò. Un buco si aprì nella camicia, la tasca mi restò in mano.

      «La mia camicia» si risucchiò la saliva dalle labbra. Mi tirò via la tasca di mano e la riportò al petto, cercando il punto da cui si era staccata.

      Lo afferrai per i capelli e lo trascinai per un pezzo a quattro zampe, le ginocchia continuavano a scivolargli e a strisciare sulla terra. Poi riuscì a sollevarsi in piedi. I mocassini bianchi sbattevano sul sentiero in lunghi passi veloci per rincorrere la testa ancora tenuta per i capelli dalla mia mano.

      Aprii la porta della torre. Le mani di Valentino si strinsero intorno al mio polso sopra la sua testa. Riuscì a staccare la mia mano dai suoi capelli, strappandosi una fitta ciocca sulla tempia. Si passò due dita sulla fronte per sistemarli, con la chiazza vuota che lasciava intravedere la pelle arrossata. Quando decise che potevano andare bene, Valentino si sistemò anche la camicia e gli occhiali. Le ginocchia e le chiappe dei pantaloni bianchi erano striati di marrone e verde, ma Valentino non se n'era accorto.

      «Cammino da me» disse.

      Uno slancio di orgoglio.

      Interessante. Un vero slancio di orgoglio.

      Salimmo insieme la scala che portava al secondo piano. Spalancai la porta della stanza.

      «Entra» spiegai, con calma.

      «Non voglio».

      Allungai le mani per afferrarlo. Valentino alzò le spalle e ci incassò dentro la testa, serrando gli occhi come un bambino. Fermai a metà strada un rovescio che stava per arrivargli dritto nei denti. Lo presi per i gomiti, lo sbilanciai in avanti e lo lanciai a terra, gli occhiali gli saltarono via mentre rotolava sul pavimento verso il centro della stanza.

      Non entrare.

      C’era qualcosa di strano in quel posto. Una specie di deformazione della realtà, un impercettibile errore fisico, una contrazione spaziale. Pressione, densità, qualcosa di invisibile e opprimente si concentrava tra le quattro pareti spoglie di pietra grezza giallastra.

      Non entrare.

      Entrai nella stanza.

      Capitolo 5

      Un'enorme sfera ruotava a velocità supersonica e cambiava direzione ogni volta che cercavo di dare forma a un pensiero. Il cervello si comprimeva contro la calotta cranica tra forza centripeta e centrifuga, le scariche elettriche bruciavano come ferite aperte tra le sinapsi. Ero sdraiato di schiena sulla sfera, schiacciato contro la sua superficie. La mente ondeggiava come un liquido dentro la testa. Anche questa impressione si era trasformata in pensiero, dando un ultimo slancio direzionale alla sfera. Tutto rallentò. Non mi sembrava più di avere un volto e neppure un corpo. Il mondo era diventato vago come se fosse fatto soltanto di idee, come se fosse sempre stata la mia mente a immaginarlo e come se si fosse ormai stancata di farlo perché le idee facevano troppo male.

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