Saccinto Saccinto

Zenith


Скачать книгу

le caratteristiche di una leggenda metropolitana.

      Una notte suo zio rientrava da un lungo viaggio in macchina con la famiglia. A un centinaio di chilometri da Torino trovarono un banco di nebbia fitta che li costrinse a una fila interminabile che andò avanti a passo d'uomo per più di un'ora. Lo zio guidava con la fronte attaccata al parabrezza, il volante schiacciato al petto e i tergicristalli che andavano al massimo per spingere via l'umidità che non smetteva di formarsi. I bambini erano terrorizzati, la moglie continuava a ripetergli di stare attento. La nebbia si infittiva come non avevano mai visto. Qualcuno davanti alla fila decise che non si poteva più proseguire, azionò le quattro frecce e si fermò a bordo strada. La fila si bloccò del tutto.

      Dopo molto tempo, quando la nebbia iniziò a diradarsi, le macchine ripartirono una a una. Ripartì anche lui. Si rimise con il petto sul volante, azionò la freccia per superare e si lasciò distanziare dalla macchina che lo precedeva per avere la visibilità della corsia di sorpasso. L'aria diventava sempre più tersa, i nervi dello zio iniziarono a distendersi. Ma mentre accelerava per spostarsi di corsia, il busto di una donna apparve dalla strada, si alzò a sedere dall'asfalto e finì contro il paraurti.

      Lo zio lanciò un urlo, sentì il tonfo del torace della donna che rimbalzava contro l'auto e quello della testa che si spappolava sull'asfalto. Inchiodò e scese per andare a vedere che cosa era successo, sicuro di aver avuto una specie di visione. Invece aveva visto bene. Una donna era davvero stesa lì a terra col cervello che tappezzava l'asfalto. Era una prostituta che era rimasta sul ciglio della strada per tutto il tempo in cui le auto si erano fermate per la nebbia. Aveva aspettato che ci fosse maggiore visibilità per poter passare e quando la nebbia aveva cominciato a dissolversi, si era incamminata, nello stesso momento in cui le auto erano ripartite. Le prime erano riuscite a schivarla, ma quella davanti allo zio di Domenico l'aveva investita senza ucciderla. A finirla era stato lui.

      Accesi la sigaretta. L’intermittenza di due fari in lontananza segnalò l’arrivo di un’auto che saliva e scendeva lentamente una serie di cunette che precedevano il rettilineo prima del dosso. Aumentò la velocità quando si immise sul piano regolare e si tenne sulla linea centrale della strada finché non diventò continua.

      Una seconda auto rischiarò la statale con i coni di luce dei fari che cambiavano angolazione per i continui colpi d’assestamento dati al volante dal guidatore. Percorse il tratto di cunette sobbalzando senza controllo e, in meno di niente, si mise in coda all’altra vettura. Il muso liftato di un’auto da corsa dava scatti nevrotici verso il centro strada per superare, senza riuscire a trovare lo spazio.

      Saltai giù dal guardrail e raggiunsi il centro della strada, nel punto più alto del dosso. Mentre andavo, nella nebbia che saliva, guardai giù dall'altra parte. L’asfalto scendeva inclinandosi in una curva a neanche un centinaio di metri. Una debole luce si proiettò sulle frecce bianche dei cartelli neri in sequenza. Era tardi, ormai, per dare retta al dubbio che avessi scelto il posto peggiore per evitare l’impatto. L’auto di Ambrose si ricavò lo spazio a colpi di gas, l’altra si fece da parte. Dietro di me, il riflesso dei fari si intensificava sulla superficie bianca e nera dei cartelli. Il rumore che vibrava sul guardrail non era quello di un’auto.

      Restai immobile a tirare dalla sigaretta e spingere fuori il fumo che si arrotolava nell’aria densa. La Porsche andava troppo forte. Avrei fatto la fine della prostituta del racconto di Domenico. Quando il paraurti di un enorme autotreno emerse dalla curva oltre il dosso, raggiunsi il bordo della strada più vicino, scavalcai il guardrail e mi allontanai di qualche metro. Poi mi girai.

      Uno stridere di gomme squarciò l’aria, sormontato dalle urla dei clacson delle due auto e dal frastuono di quello dell’autotreno che sbandò in modo spaventoso per deviare. La cabina oscillò in cima alla salita, fuori dalla carreggiata, poi verso la strada, il rimorchio si sbilanciò in contrasto alla sterzata. Sembrava una bestia di dimensioni mastodontiche che inciampa e vacilla prima di crollare abbattuta.

      La Porsche finì dritta contro l’angolo anteriore sinistro del muso dell’autotreno. L’onda d’urto che si propagò fece tremare l’aria, il tetto di chiome di alberi oltre la strada e le luci della stazione di servizio. Un unico mostro di ferraglia, vetro e gomma si spinse verso l’alto per la violenza, una serie a catena di scintillii investì l'ignara notte d’estate e una pioggia arcuata di detriti esplose, rimbalzando a decine di metri di distanza. Poi, trascinato dal contraccolpo del rimorchio, l’autotreno si inclinò sul fianco e si schiantò al terreno, strisciò per qualche metro e sbalzò a grande distanza quello che restava della Porsche. L’altra auto schizzò incolume sull’asfalto e inchiodò prima della curva oltre il dosso.

      Aspettai che tutto si fermasse prima di attraversare la nube di terra sospesa nella foschia e innalzata dal telone del rimorchio. Mi misi sulla strada, cercai l’auto di Ambrose. La gente era venuta fuori dalla stazione di servizio, a piedi, si era fermata a vedere. Alcuni si passavano le mani sulla testa, altri cercavano di spiegare a quelli che avevano accanto, qualcuno correva avanti e indietro per capire cosa fare. Vedevo le loro ombre muoversi attraverso il filtro bianco della nebbia. Dall’altra parte, nell’auto in discesa illuminata a intermittenza dalle quattro frecce, una figura se ne stava seduta con il volto nelle mani, mentre qualcuno veniva fuori, guardava la strada e attraversava di corsa. La sua voce mi raggiunse prima di lui.

      «Mi ha superato sul dosso. Ho detto “Questo è pazzo!”, non credevo che…» il ragazzo si schiantò i pugni sulle cosce «Avrei dovuto rallentare, avrei dovuto lasciarlo passare» iniziò a disperarsi piegandosi in due con una mano sugli occhi.

      Andai a prenderlo per un braccio, lo trascinai verso la cabina dell’autotreno. Ci affacciammo a guardare. L’uomo al suo interno se ne stava col tronco tenuto al sedile dalla cintura di sicurezza, la testa riversa da un lato e un rivolo di sangue che si allungava dalla stempiatura tra i capelli verso il basso.

      L’hai fatto secco, bella prova.

      Dopo qualche secondo iniziò a muoversi e si liberò dalla cintura. Si toccò la ferita e cercò di capire cosa fosse successo, mettendosi in piedi oltre il parabrezza come dietro una teca di vetro attraversata dalle crepe che si diramavano.

      «Tiriamolo fuori» dissi.

      Feci cenno all’uomo di allontanarsi, mi ficcai la sigaretta tra i denti, piantai la suola della scarpa su una crepa e la mossi piano avanti e indietro, allontanando subito la gamba. Il vetro venne giù un pezzo alla volta. Il ragazzo accanto a me allungò una mano. L’uomo la prese, scavalcò quel che restava del parabrezza ed ebbe un mancamento. Lo trasportammo vicino all’auto del ragazzo, stendendolo oltre il ciglio della strada, al riparo, sotto il guardrail. La ragazza che se n’era stata per tutto il tempo all’interno della macchina scese velocemente.

      «È vivo?» chiese.

      «È vivo, sì, è vivo» rispose il ragazzo. La strinse e le baciò una guancia quando lei iniziò a piangere.

      «Dobbiamo estrarre l’altro uomo» si rivolse poi a me.

      La ragazza si chinò sul corpo del ferito. Il suo modo di osservarlo, mentre ravviava i capelli dietro il piccolo orecchio, la delicatezza e la spontaneità con cui la sua mano scivolava tra le mani dell’uomo, stringendone una, mi fece provare qualcosa di strano. Nonostante fossero due sconosciuti, per lei adesso quell'uomo era la cosa più importante al mondo. Avrei voluto sentirmi così anch’io, una sola volta, per qualcuno. Avrei voluto essere l’uomo ferito sul ciglio della strada e che Lei fosse la ragazza piegata su di me. Indietreggiai di qualche passo, poi mi voltai risalendo verso il dosso e mi incamminai in discesa. Lanciai via la sigaretta.

      Mi fermai davanti a quella che fino a poco prima era stata una Porsche Boxster grigio metallizzato. Gli uomini della stazione di servizio venivano in fretta verso di noi, ma si fermarono di colpo quando il fuoco divampò intorno alla carrozzeria. Per quello che era stata pagata.

      «Gli estintori» urlò qualcuno e corsero tutti indietro.

      Cercai il corpo con lo sguardo, sembrava che fosse stato inghiottito dal mostro di lamiere. Poi vidi qualcosa. Un occhio, disumanamente spalancato, rivolto nella mia direzione. Intorno a quell’occhio ricostruii i contorni del viso deformato con le labbra aperte all’inverosimile. L’altra metà del volto era completamente schiacciata sul cruscotto