Saccinto Saccinto

Zenith


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mi aveva terrorizzato di colpo. Mi passai il dorso di una mano sulle labbra, continuavo a inumidirle con la lingua senza rendermene conto. Restai a decidere cosa fare senza muovermi, quasi senza respirare. Il terrore prese a salire insieme al ritmo del battito del cuore, sentivo improvvisamente caldo. Continuavo a credere impossibile quello che stava accadendo.

      Il buio emerse allora dal vicolo cieco. Non era il buio normale, quello che si può immaginare di una stradina senza illuminazione in una notte senza luna. Era un buio denso, un'entità che non apparteneva alla realtà, un'oscurità che inghiottiva lentamente tutto ciò che raggiungeva. E dentro il buio, una strana figura di forma umanoide strisciava sul pavimento allungando un braccio nero sul terreno per spingersi in avanti, come se avesse sulle spalle il peso intero di tutto quel buio e fosse lui a trascinarselo dietro, lento, ma inarrestabile.

      Era abbastanza. Ingoiai l'idea di attraversare lo strada che affiancava le nicchie. Spinsi i talloni a terra e tirai la moto dal manubrio per rimetterla in salita. La riaccesi e partii. Mi piegai in avanti per compensare la pendenza, svoltai nella strada che girava a elle intorno al monastero. L'aria gelida mi bruciava il viso mentre le ruote divoravano l'asfalto. Il cuore prese a colpire a ripetizione il petto come se volesse disintegrare la coltre di gelo che lo ricopriva. Il muro del monastero e il taglio del marciapiedi, lucidati dall'acqua, correvano ai bordi della mia visuale trasformati in scie eteree ingoiate dalla notte.

      Una realtà imprecisa emergeva strato dopo strato dal buio e aggiungeva una piccola porzione di spazio per volta alla sequenza di vicoli già attraversati, prolungandosi senza fine. Era come se la distanza che mi separava dalla via per tornare a casa si allungasse sempre di più sotto il calore e la pressione degli pneumatici, dilatandosi fino all’inverosimile. Mi sembrò di aver corso per tutta la vita su quella moto dentro vicoli e stradine che si ripetevano all’infinito in una notte eterna, come in un gioco di scatole cinesi, senza arrivare mai alla fine.

      Seguii l’angolo in cui si piegava la strada quasi senza rallentare. Inclinai talmente tanto la coda della moto che il taglio della gomma slittò sull’asfalto viscido. Riuscii a mettere una gamba a terra mentre lo scooter schizzava via verso il ciglio della strada alla mia destra. Lo seguii per un istante con la mano ancora stretta al manubrio, poi lo lasciai andare. Ruotò a terra su un fianco, leggero come una trottola, nello stridio acuto delle carene incise, finendo contro la staccionata che delimitava la strada. Andai a recuperarlo, mi rimisi in sella e accelerai talmente in fretta che la ruota slittò ancora, senza attrito. La gomma riprese contatto, spinse in avanti la moto di colpo, la ruota anteriore si sollevò per un attimo. In fondo al buio, al di là del ponticello di legno, vibravano le luci dell'ultima svolta per casa.

      Mandai giù una sorsata di saliva quando, sui gradini oltre il muro sormontato dall’inferriata verde, l’ombra della prima figura incappucciata si sollevò come se fosse viva, proiettata dal faro della moto nella parte alta della nicchia. Strisciai il mento sulla spalla per girarmi indietro, all'altezza del cancello d’ingresso del monastero, poco prima di raggiungere il ponte di legno.

      Dietro di me il mondo non esisteva più. Non era semplicemente immerso nell’oscurità, era definitivamente scomparso in un unico volume nero compatto che aveva assorbito ogni cosa. Le due linee appena visibili che definivano la strada, l’angolo alto in fondo al grande edificio del monastero, persino il cancello verde che dall’ultima svolta aveva preso a correre di asta in asta sul muro perimetrale, tutto si interrompeva senza un perché a metà strada. Da quel momento non riuscii più a disincantarmi dal buio e a tornare a guardare la strada davanti a me. La curvatura dell’asfalto diventava sempre più convessa, più liscia e viscida, la ruota posteriore girava troppo velocemente e slittava da una parte e dall'altra perdendo aderenza.

      Le mani erano impietrite dal freddo, le labbra squarciate, la fronte dolorante, mentre dagli occhi lacrime ghiacciate si diramavano lungo il viso. Le ossa e i muscoli si indebolirono di colpo, iniziai a tremare senza controllo, per il freddo, per la paura. Mi resi conto del dolore sotto le unghie soltanto quando sentii che stringevano talmente tanto le manopole da scorticarle. Un'incalzante sequenza di passi in corsa batteva nelle pozzanghere ai bordi del buio che avanzava.

      Chiusi gli occhi. Per un attimo le pupille si persero da qualche parte sotto le palpebre. L'asfalto si fece inconsistente sotto la ruota di avanti. Il manubrio diventò leggero come se stessi guidando su una lunga lastra di ghiaccio, iniziò a oscillare in maniera spaventosa, mi sbilanciai, la moto diede una svolta a destra e un netto contraccolpo a sinistra.

      La ruota di avanti scivolò via, la moto scomparve sotto di me, la vidi riapparire qualche metro più avanti saltando e ruotando verso il ponte. Da qualche parte, nell'occhio sinistro, un lampo rosso esplose, trasformandosi in un muro d'asfalto. La faccia, la guancia, l’orecchio e la tempia bruciarono sulla strada. Fu come sbattere contro la superficie del tempo che si distorse irrimediabilmente nel paradosso immediato che nulla fosse mai accaduto.

      Vidi la moto saltare sui dislivelli delle assi di legno del ponte, prima di scomparire nel buio. Il ponte si interrompeva a metà su un salto di almeno venti metri giù dalla collina, un albero di cui restavano solo le radici mezze divelte si era staccato dal fianco di terra ed era caduto sulla vecchia struttura di legno, sfondandola. La moto era stata ingoiata dal bosco sotto il ponte. Rotolai sui dislivelli delle assi fin dove il ponte si interrompeva, poi sentii il vuoto sotto di me e caddi in un'ondata di aria gelida che mi investiva la faccia gridandomi nelle orecchie un lamento spaventoso.

      Rimbalzai sul terreno argilloso decine di metri più sotto, rotolai tra gli alberi come una bambola di pezza. Mi fermai con un braccio incastrato sotto la pancia, disteso a terra, sotto le fronde di un platano, con un occhio aperto e l'altro sprofondato nel fango. Non sentivo più freddo né rumori né alcun dolore. C’era solo l'odore della terra e delle foglie bagnate che saliva nelle narici. Davanti a quell'unico occhio si formarono lentamente delle immagini.

      Lei mi veniva incontro in un pomeriggio di sole con un riflesso lucido intorno all’ombelico sotto la camicia azzurra. I suoi fianchi ruotavano tra le mie mani mentre si girava di spalle, la sua pelle diffondeva un profumo che soltanto io potevo sentire. Strisciavo le dita lungo una cucitura dei suoi jeans mentre mi sedevo a terra. Si voltava a guardarmi dall’alto, poi cercava posto nello spazio tra le mie gambe. Scostavo da una parte i suoi capelli, mi avvicinavo al suo collo. Lei inclinava la testa da un lato e si stringeva tutta, appena le mie labbra la sfioravano. La sua mano teneva la mia tra la sua guancia e la spalla. Poi la baciava piano.

      Una lacrima calda scese dall’angolo dell’occhio aperto.

      Le pareti cadevano a pezzi per l’umidità e scuri squarci di intonaco tumefatto si aprivano nell’alta volta sopra la mia testa. La luce dei lampi fotografava di tanto in tanto la stanza. La mia immagine appariva per un attimo nella grande specchiera di fronte. Ero seduto a una sedia di legno cigolante con gli scarponi poggiati sul tavolo, avevo una maglia nera pesante e un paio di jeans, aspettavo l'arrivo dei miei amici per la semifinale. Da un portacenere si innalzava il fumo di una sigaretta spenta alla meglio. Al telegiornale passava un servizio su un terremoto che aveva distrutto un’intera città da qualche parte in culo alla Russia. Il freddo era penetrato anche all’interno della casa, ce l'avevo nelle ossa, il freddo di una strana giornata di luglio che aveva spezzato quell’estate così lineare. Il vetro di una credenza rifletteva dallo schermo della televisione l'immagine di una scimmia in giacca e cravatta con un cappello da giullare sulla testa. I vecchi mobili, gonfi di anni trascorsi a resistere all’umidità, nascondevano in parte le marce pareti. La mia pelle sarebbe rimasta per sempre impregnata dall'odore di vecchio e di chiuso della casa dei nonni. Mia madre, il giorno dopo, avrebbe scoperto per l'ultima volta che ci ero stato, quando avrebbe annusato il mio cadavere.

      Splendida fine.

      Capitolo 2

      Un piede puntato a terra si mosse, il tallone oscillò. Le nocche strisciarono nel fango, feci leva su un polso che non mi riusciva di girare, ma la fronte restò incollata al terreno. Mi tirai su. Lentamente. Trascinai gli scarponi verso la moto, la ruota davanti continuava a girare a vuoto con un cigolio incessante. Provai a rialzarla, ma non avevo forza. Iniziai a tossire, mentre indietreggiavo. Il sangue colava dalla faccia e dalla bocca, lunghe gocce si diluivano nel velo d’acqua steso in una pozzanghera.

      Il silenzio si era fatto solido, come