Блейк Пирс

Il Sussurratore delle Catene


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fece un respiro profondo.

      E’ la sola via d’uscita.

      Raccolse le idee ed entrò nell’affollato labirinto, popolato da agenti dell’FBI, da specialisti scientifici e dal personale di supporto.

      Mentre attraversava la zona delle postazioni di lavoro, tutti sollevarono lo sguardo dal computer. Molti le sorrisero, e non pochi le mostrarono il pollice alto.

      Riley iniziò lentamente a sentirsi contenta di aver deciso di andare lì. Aveva bisogno di tirarsi su il morale.

      “Ben fatto con il Killer delle Bambole” un giovane agente esclamò.

      A Riley occorsero un paio di secondi per comprendere che cosa intendesse. Poi, comprese che il “Killer delle Bambole” doveva essere il nuovo soprannome di Dirk Monroe, lo psicopatico che aveva appena catturato. Il soprannome aveva senso.

      Riley notò anche un’espressione più dubbiosa sui volti di alcuni dei colleghi, che la guardavano. Senza dubbio, avevano saputo dell’incidente a casa sua, la notte scorsa, quando un’intera squadra si era precipitata sul posto, dopo che lei aveva dato l’allarme.

      Probabilmente si chiedono se sono in me, pensò. Per quanto ne sapesse, nessun altro al Bureau credeva che Peterson fosse ancora vivo.

      Riley si fermò davanti alla scrivania di Sam Flores, un tecnico di laboratorio con un paio di occhiali con montatura scura, impegnato al computer.

      “Che notizie hai per me, Sam?” Riley chiese.

      Sam alzò gli occhi dallo schermo, guardandola.

      “Intendi sull’intrusione in casa tua, giusto? Ecco, proprio ora sto esaminando alcuni rapporti preliminari. Temo che non ci sia molto. I tecnici del laboratorio non hanno trovato niente sui ciottoli — niente DNA o fibre. Nemmeno impronte digitali.”

      Riley sospirò, scoraggiata.

      “Fammi sapere se cambia qualcosa” replicò, dando un colpetto sulla spalla di Flores.

      “Non ci conterei” Flores ribatté.

      Riley proseguì nell’area, condivisa da alcuni agenti anziani. Passando davanti ai piccoli uffici, con pareti in vetro, notò che Bill non c’era. Ne fu sollevata ma sapeva bene che il confronto era solo rimandato: presto o tardi avrebbero dovuto chiarire.

      Giunta nel suo ufficio, ordinato e ben organizzato, Riley trovò un messaggio telefonico di Mike Nevins, lo psichiatra forense di Washington D.C., che talvolta aveva consultato per i casi del BAU.

      Negli anni si era affidata a lui, che considerava un’importante risorsa non solo dal punto di vista lavorativo. Mike, infatti, l’aveva aiutata, quando aveva sofferto della Sindrome Post Traumatica da Stress, dopo che Peterson l’aveva catturata e torturata. Ora certamente l’aveva chiamata per chiederle del suo stato psicologico, come faceva sempre.

      Stava per richiamarlo, quando la grande sagoma dell’Agente Speciale Brent Meredith comparve sulla porta. I lineamenti neri e spigolosi del comandante dell’unità lasciavano intuire la sua personalità dura e pratica. Riley si sentì sollevata al solo vederlo. Era sempre stata rassicurata dalla sua presenza.

      “Bentornata, Agente Paige” le disse.

      Riley si alzò per stringergli la mano. “Grazie, Agente Meredith.”

      “Ho sentito che hai avuto un’altra piccola avventura la scorsa notte. Spero che tu stia bene.”

      “Sto bene, grazie.”

      Meredith la guardò sinceramente preoccupato, e la donna comprese che stava cercando di valutare se fosse pronta a tornare in pista.

      “Vuoi unirti a me per un caffè?” le chiese.

      “Grazie, ma ci sono dei file che devo davvero controllare. Sarà per un’altra volta.”

      Meredith annuì semplicemente. Riley sapeva che stava aspettando che lei dicesse qualcosa. Senza dubbio, aveva anche sentito del fatto che lei credeva che Peterson si era introdotto in casa sua. Le stava dando la possibilità di dargli la sua opinione. Ma la donna era sicura che anche Meredith, come tutti gli altri, non sarebbe stato disposto ad accettare la sua idea riguardo a Peterson.

      “Bene, farei meglio ad andare” lui disse. “Fammi sapere se sei libera per un caffè o a pranzo.”

      “D’accordo.”

      Meredith si fermò e tornò a guardare Riley.

      Lentamente e attentamente, le disse: “Fai attenzione, Agente Paige.”

      Riley lesse molti significati in quelle parole. Non molto tempo prima, un altro superiore l’aveva sospesa per insubordinazione. Era stata reintegrata, ma la sua posizione poteva ancora essere incerta. Riley sentiva che Meredith le stava dando un avvertimento amichevole. Non voleva che facesse qualcosa per mettersi in pericolo. E sollevare un polverone per Peterson avrebbe potuto causarle dei problemi con quelli che avevano dichiarato il caso chiuso.

      Rimasta sola, Riley tornò alla sua postazione al computer, ed aprì sulla scrivania la corposa cartella sul caso Peterson. Cominciò a scorrerla per rinfrescarsi la memoria sul suo nemico ma non trovò informazioni utili.

      La verità era che quell’uomo restava un enigma. Non c’erano stati rapporti neppure sulla sua esistenza, finché Bill e Riley lo avevano finalmente rintracciato. Peterson poteva anche non essere il suo vero nome e ipotizzavano che potesse avere diverse altre identità.

      Scorrendo i fogli, Riley trovò fotografie delle sue vittime: erano tutte donne che erano state trovate in buche poco profonde, segnate da cicatrici da bruciature e morte per strangolamento manuale. Riley rabbrividì al ricordo delle grandi e forti mani, che l’avevano afferrata e messa in gabbia, proprio come un animale.

      Nessuno sapeva quante donne lui avesse ucciso; era possibile che molti cadaveri non fossero stati ritrovati. E, prima che Marie e Riley fossero sopravvissute alla cattura per raccontarlo, nessuno sapeva quanto il killer si divertisse a tormentare le donne al buio con una torcia al propano.

      Ma nessuno voleva credere che Peterson fosse ancora vivo.

      Questa storia la stava demoralizzando. Riley era nota per la sua capacità di entrare nelle menti dei killer, una capacità che talvolta la spaventava. Nonostante la sua dote, non era mai riuscita ad entrare nella mente di Peterson.

      In quei giorni sentiva di comprenderlo ancora di meno.

      Non lo aveva mai considerato uno psicopatico organizzato. Il fatto che lasciasse le sue vittime in buche poco profonde suggeriva proprio l’opposto. Non era un perfezionista ma era abbastanza meticoloso da non lasciare tracce. Quell’uomo era davvero paradossale.

      Ricordò qualcosa che Marie le aveva detto poco prima di suicidarsi …

      “Forse, è come un fantasma, Riley. Forse è questo che è successo quando l'hai fatto esplodere. Hai ucciso il suo corpo, ma non hai eliminato il suo male.”

      Lui non era un fantasma e Riley lo sapeva. Era certa — più che mai — che fosse là fuori e di essere il suo prossimo bersaglio. Ma, per quanto ne sapesse, poteva benissimo essere un fantasma. A parte lei, nessun altro credeva che esistesse.

      “Dove sei, bastardo?” sussurrò ad alta voce.

      Non lo sapeva, e non sapeva neppure come fare a scoprirlo. Era completamente ostacolata. Non aveva altra scelta che lasciar perdere per ora. Chiuse il fascicolo e lo rimise al proprio posto, nel suo archivio.

      Poi, il telefono del suo ufficio squillò. Vide che la chiamata veniva da una linea condivisa da tutti gli agenti speciali. Era la linea che il telefono del BAU utilizzava per inoltrare chiamate agli agenti. Stando al regolamento, qualsiasi agente prendesse per primo la chiamata avrebbe preso il caso.

      Riley si guardò intorno, dando un’occhiata agli altri uffici. Nessun altro sembrava essere presente al momento. Gli altri erano tutti in pausa o fuori a lavorare su altri casi. Riley rispose al telefono.

      “Agente