i fenomeni economici di una qualsiasi età, compresa quella presente, senza un’adeguata misura di senso storico o di quella che può essere chiamata ‘esperienza storica’. [E aggiungeva] Il secondo modo è che l’esposizione storica non può essere puramente economica ma riflette, inevitabilmente, anche fatti ‘istituzionali’ che non sono puramente economici: perciò lo studio della storia costituisce il metodo migliore per comprendere come i fatti economici e non-economici sono in relazione gli uni con gli altri e come le varie scienze sociali debbono essere messe in rapporto fra loro
Michel Foucault ci ha mostrato che i frammenti di memoria che recuperiamo lungo il viaggio che dal presente ci conduce al passato ci forniscono la base interpretativa del significato del nostro percorso verso la conoscenza del presente e anche del nostro stesso essere. Scriveva Foucault: «L’obiettivo […] è quello di tracciare la storia dei diversi modi in cui, nei vari ambiti della nostra cultura […], gli uomini hanno sviluppato una conoscenza di sé».7 Riferendosi alla lezione metodologica di Foucault annotava P. H. Hutton: «Scandagliare il passato deve insegnarci che esistono opzioni tra le quali siamo liberi di scegliere, e non solo continuità alle quali conformarci».8 In tal senso la storia, indipendentemente dall’arco cronologico e dallo spazio sottoposti ad analisi, consente di comprendere il presente mediante il passato e allo stesso tempo di comprendere il passato mediante il presente. Scriveva saggiamente Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere:9
Come (e perché) il presente sia una critica del passato, oltre che un suo «superamento». Ma il passato è perciò da gettar via? È da gettar via ciò che il presente ha criticato «intrinsecamente» e quella parte di noi stessi che a ciò corrisponde. Cosa significa ciò? Che noi dobbiamo aver coscienza esatta di questa critica reale e darle un’espressione non solo teorica, ma politica. Cioè dobbiamo essere più aderenti al presente che noi stessi abbiamo contribuito a creare, avendo coscienza del passato e del suo continuarsi (e rivivere).
Come chiariva Marc Bloch, nella prima nota a pie’ di pagina dell’Introduzione alla sua splendida opera già citata,10
Sono stato discepolo di due autori [Charles-Victor Langlois e Charles Seignobos] e, in particolare, di Seignobos. Mi hanno dato entrambi preziosi segni della loro benevolenza. La mia formazione di base deve molto al loro insegnamento e alla loro opera. Ma essi non ci hanno soltanto insegnato, tutti e due, che lo storico ha come primo dovere la sincerità; non ci nascondevano neppure che il progresso medesimo dei nostri studi è dato dalla necessaria contraddizione fra le successive generazioni di studiosi. Rimarrò dunque fedele alla loro lezione se li criticherò liberamente là dove lo crederò utile, come mi auguro che un giorno i miei discepoli, a loro volta, mi critichino.
Gli stessi Langlois e Seignobos, ci aveva ricordato C.M. Cipolla, avevano scritto nel 1898, che «senza documenti non vi è storia»; e anche che G.R. Elton nel volume The Practice of History, del 1967, aveva ribadito: «conoscenza di tutte le fonti e competente valutazione critica delle stesse: questi sono i requisiti di base di una attendibile storiografia».11 Ma, come sottolineava Fernand Braudel:12
L’importanza assunta dalle fonti documentarie ha fatto credere allo storico che tutta la verità stesse nell’autenticità documentaria. [Aggiungendo] «È sufficiente» scriveva solo ieri Louis Halphen [il testo citato di Halphen era del 1946] «lasciarsi in qualche modo portare dai documenti, letti uno dopo l’altro, così come ci si offrono, per vedere ricostituirsi quasi automaticamente la catena dei fatti».
A mio avviso, in questo contesto il primo punto sul quale occorre far chiarezza è il seguente: cosa intendiamo quando parliamo di storia economica relativamente al Medioevo? Ed ancora, esiste una specifica o almeno largamente condivisa metodologia storico-economica in relazione al Medioevo?
La società medievale, per la poliedricità di caratteri che presenta, derivanti dai diversi assetti politico-istituzionali, dal variare dei rapporti di dipendenza tra i vari soggetti, da inuguale distribuzione dell’uomo nello spazio e da disparate fortune degli aggregati umani, dal mutare delle culture e delle mentalità nei vari ambiti, richiede necessariamente, a mio parere, che il lavoro dello studioso non proceda in base a delle categorie globalizzanti e preconcette, non segua pedissequamente dei modelli utilizzabili nel variare del tempo e dello spazio, ma si adegui continuamente alle trasformazioni degli aggregati sociali, al variare degli stadi della tecnica e ai presupposti teorici che gli uomini tesero a realizzare. A mio avviso solo una serie di studi condotti con metodologie similari ed effettuati in spazi e tempi differenti consentirebbe di giungere a delle categorie tipologizzabili e a ottenere le dovute comparazioni spazio-temporali.
Vi è poi un altro elemento da porre in luce. Vari decenni fa si è ritenuto che la storia economica fosse essenzialmente la storia dei fatti e degli accadimenti economici: storia della produzione, dello scambio, del consumo, del lavoro, dei prezzi, dei salari, della moneta, ecc. In relazione al Medioevo, data la carenza e la frammentarietà delle fonti, specialmente di quelle di natura quantitativa, e data la disparità dei mercati e delle strutture politiche e sociali, si giunse a studiare dei micro spazi e si fece largo uso del tempo breve. Così si scrissero lavori, pur assai raffinati, sul trasporto di alcune balle di stoffe, sul costo del lavoro in una data azienda in relazione a pochi anni, sull’entità della popolazione in un piccolo aggregato umano, per fare solo qualche esempio.
Questi studi pionieristici, pur di grande interesse, hanno avuto a mio avviso il difetto di non mettere in meritata luce la valenza globalizzante dell’economico.
Se noi consideriamo la definizione di economia politica, prendendo le mosse da una delle sue prime accezioni esplicite, quella data da Antoine de Montchréstien nel suo famoso Traicté de l’oeconomie politique del 1615, vediamo definire l’economia quale «scienza dell’acquisizione della ricchezza», e sottolineare che l’aggettivo «politica» sta a indicare che questa scienza è necessaria allo stato e non solo alla casa, alla famiglia o al soggetto singolo, come l’etimologia greca della parola potrebbe far intendere.
È una concezione analoga a quella che troviamo in Adam Smith, che risulta implicita sin dal titolo della sua famosa opera Ricerca sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni e che viene esplicitata nella definizione data dallo stesso autore nell’Introduzione al libro IV:13
L’economia politica, considerata come ramo della scienza dello statista o del legislatore, si propone due fini distinti: primo, provvedere un abbondante reddito o sussistenza alla popolazione, o più esattamente metterla in grado di provvedere a se stessa tale reddito o sussistenza; e secondo, fornire allo stato o alla repubblica un reddito sufficiente per i pubblici servizi. Essa si propone di arricchire sia il popolo che il sovrano.
Nell’accezione di Smith oggetto dell’economia politica è la ricchezza, intesa quale insieme dei prodotti del lavoro capace di soddisfare i bisogni umani, e l’analisi economica consente di chiarire il grado di economicità o di valore economico presente in ogni determinata e concreta situazione storica. Proprio in quanto nella concezione di Smith la scienza economica non presenta connotazioni riconducibili a quelle della scienza della natura, risulta evidente l’impossibilità per lo scienziato di far ricorso all’esperimento e il suo bisogno di verificare le ipotesi in una sistematica analisi storica.
Indubbiamente il limite maggiore dell’analisi di Smith, come della maggior parte dei classici, fu quello di considerare il sistema economico a lui contemporaneo –quello del capitalismo– e quindi il sistema dei rapporti che determinano la vita economica in questo sistema, come formazioni eterne e immutabili.
La pretesa immutabilità e universalità del sistema capitalistico e il condizionamento da esso esercitato