Alberto Vazquez-Figueroa

Tuareg


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sessanta rapine a mano armata e di uno svariato numero di furti, di truffe, di diserzioni e di reati di minore importanza per cui, per dominare una simile truppa, aveva dovuto dare fondo a tutta la sua esperienza, astuzia e violenza. Il

      rispetto che infondeva era superato soltanto da quello che imponeva il suo uomo di fiducia, il sergente maggiore Malik-el-Haideri, un uomo magro, piccolo e apparentemente debole e infermo ma così crudele, astuto e valido che era riuscito a controllare una tale combriccola di bestie sopravvivendo a cinque tentativi di omicidio e a due duelli al coltello.

      Malik era la «morte naturale» più normale ad Adoras e due dei suicidi erano dovuti a un’estrema insofferenza nei suoi confronti.

      Ora, seduto in cima alla più alta duna che dominava l’oasi da est, una vecchia ghourds di più di cento metri di altezza, dorata dal tempo e indurita nel suo interno tanto da trasformare la sabbia quasi in pietra, il sergente Malik osservava senza interesse come i suoi uomini spalavano sabbia dalle giovani dune che minacciavano di sommergere il pozzo più lontano, fino a quando mise a fuoco il binocolo verso il solitario cavaliere che aveva fatto la sua apparizione montando un bianco mehari e che avanzava senza fretta in direzione del posto militare. Si domandò che cosa cercasse un targuf in quei luoghi fuori mano, quando ormai da sei anni avevano smesso di frequentare i pozzi di Adoras evitando ogni contatto con i loro occupanti. Le carovane beduine arrivavano sempre più raramente, facevano rifornimento d’acqua, riposavano un paio di giorni nel punto più appartato dell’oasi cercando di nascondere le loro donne e di non frequentare assolutamente i soldati e riprendevano la marcia sospirando di sollievo che non ci fosse stato alcun incidente. Ma i tuareg no. I tuareg quando sostavano nell’oasi, assumevano un atteggiamento altero e sfrontato e permettevano che le loro donne girassero liberamente con il viso scoperto e le braccia e gambe nude, indifferenti al fatto che quegli uomini non toccavano una donna da anni, e imbracciavano i fucili e le loro affilate sciabole quando qualcuno cercava di eccedere.

      Da quando due guerrieri e tre soldati morirono in una rissa, i Figli del Vento avevano preferito cancellare il posto militare dal loro cammino, ma in quel momento quel cavaliere solitario avanzava deciso, abbordava l’ultima cresta, si stagliava contro il cielo dell’imbrunire con le vesti al vento per addentrarsi infine tra le palme e fermarsi vicino al pozzo nord, a un centinaio di metri dalle prime baracche.

      L’ufficiale si lasciò scivolare per la duna senza fretta, attraversò l’accampamento e arrivò vicino al targuf che abbeverava il suo cammello capace di bere cento litri d’acqua in un solo sorso.

      «Aselam, aleikum.»

      «Metulem, metulem», rispose Gacel.

      «Hai una buona bestia. E molto assetata.»

      «Veniamo da lontano.»

      «Da dove?»

      «Dal Nord.»

      Il sergente Malik-el-Haideri odiava il velo targuf perché si vantava di conoscere gli uomini e di capire, dall’espressione dei loro volti, quando dicevano la verità e quando mentivano. Ma con i tuareg quella possibilità non esisteva, perché lasciavano scoperta appena una fessura per gli occhi, che socchiudevano e rimpicciolivano di proposito nel parlare. Anche la voce suonava distorta e perciò si vide costretto ad accettare per buona la risposta, poiché in effetti lo aveva visto arrivare dal Nord e non aveva motivo per sospettare che Gacel si fosse preoccupato di fare un grande giro e fare sì che lo vedessero avanzare da quella direzione, l’opposta di quella da cui realmente proveniva.

      «Dove sei diretto?»

      «Al Sud.»

      Aveva lasciato che il suo mehari si sdraiasse, soddisfatto e gonfio, con la pancia piena d’acqua, e si dedicava al compito di ammucchiare rami per preparare un piccolo focolare.

      «Puoi mangiare con i soldati», gli fece notare.

      Gacel sollevò un lembo di coperta e mostrò mezza antilope ancora tumida e coperta di sangue secco.

      «Tu puoi mangiare con me, se lo desideri. In cambio della tua acqua.»

      Il sergente maggiore Malik sentì che il suo stomaco faceva un salto. Erano più di quindici giorni che i cacciatori non catturavano una preda, perché con gli anni le avevano sempre più allontanate dai dintorni, e tra i suoi soldati non c’era nessun beduino autentico conoscitore del deserto e dei suoi abitanti.

      «L’acqua è di tutti», rispose, «ma accetto con piacere il tuo invito. Dove lo hai cacciato?»

      Gacel sorrise dentro di sé per il rozzo trabocchetto.

      «Al Nord», rispose.

      Aveva ormai riunito tutta la legna di cui necessitava e sedutosi sulla coperta della sua cavalcatura, estrasse la pietra focaia e lo stoppino, ma Malik gli offrì la sua scatola di fiammiferi.

      «Usa questa», disse. «È più comodo. Tienila. Ne abbiamo molte in fureria.»

      Si era seduto di fronte a lui e lo osservava mentre infilzava le zampe dell’antilope nella baionetta del suo vecchio fucile preparandosi ad arrostirle lentamente a fuoco basso.

      «Cerchi lavoro al Sud?»

      «Cerco una carovana.»

      «Non è periodo di carovane, le ultime sono passate da un mese.»

      «La mia mi aspetta», fu l’enigmatica risposta e, poiché avvertì che il sergente lo guardava fisso senza comprendere, aggiunse con lo stesso tono: «Sono più di cinquant’anni che mi aspetta».

      L’altro sembrò capire e lo guardò a lungo:

      «La Grande Carovana!» esclamò alla fine. «Vai in cerca della Grande Carovana della leggenda? Sei pazzo!»

      «Non è una leggenda. Mio zio c’era. E io non sono pazzo. Mio cugino Suleimàn, che vive caricando mattoni per una paga miserabile, sì, che è pazzo.»

      «Nessuno di coloro che sono andati in cerca della carovana è tornato vivo.»

      Gacel indicò con un gesto della testa le tombe che si intravedevano tra le rade palme, in fondo all’oasi.

      «Non saranno più morti di quelli. E se l’avessero trovata sarebbero ricchi per sempre.»

      «Ma la terra vuota non perdona. Non c’è acqua, né vegetazione che serva da cibo per il tuo cammello, ombra che ti copra, o alcun punto di riferimento per orientarsi. È un inferno!»

      «Lo so», ammise il targuf. «Sono stato lì due volte.»

      «Sei stato nelle terre vuote?» ripetè incredulo.

      «Due volte.»

      Il sergente Malik non ebbe bisogno di vederlo in faccia per sapere che diceva la verità e un nuovo interesse nacque in lui. Aveva trascorso abbastanza anni nel Sahara per dare il giusto valore a un uomo che era stato nelle terre vuote e ne era tornato. Potevano contarsi sulle dita di una mano da Marruecos all’Egitto, e neanche Mubarrak-ben-Sad, guida ufficiale dell’avamposto militare che passava per uno dei migliori conoscitori delle sabbie e delle pietraie, ammetteva di averci tentato. «Ma conosco uno», gli aveva confessato una

      volta durante una lunga spedizione alla scoperta del massiccio di Huaila, «conosco un inmouchar del Kel Talgimus che è andato e tornato.»

      «Che cosa si avverte lì dentro?»

      Gacel lo guardò a lungo e alzò le spalle.

      «Nulla. Devi lasciare fuori ogni sentimento. Devi lasciare fuori perfino le idee e vivere come una pietra, attento a non fare nessun movimento che consumi acqua. Anche la notte devi muoverti piano come un camaleonte, solo così riesci a diventare insensibile al caldo e alla sete e, soprattutto, se riesci a vincere il panico e a conservare la calma, solo così hai una remota possibilità di sopravvivenza.»

      «Perché lo hai fatto? Cercavi la Grande Carovana?»

      «No. Cercavo, in me, i resti dei miei antenati. Loro vinsero le terre vuote.»

      L’altro negò convinto.

      «Nessuno