Gacel era un targuf; forse, per disgrazia, l’ultimo degli autentici tuareg della pianura e sapeva che non avrebbe mai dimenticato che un uomo indifeso era stato assassinato sotto il suo tetto e un altro, suo ospite, era stato portato via con la forza.
Per cui, quando la nube si allontanò verso sud e il sole della sera asciugò il suo corpo e i suoi indumenti, si vestì di nuovo, mise la sella al suo animale e riprese il cammino voltando per la prima volta le spalle all’acqua e alla pioggia; alla vita e alla speranza; a qualcosa che solo una settimana prima, solo due giorni prima, avrebbe riempito di gioia il suo cuore e quello dei suoi.
Di notte cercò una piccola duna, scavò una buca scansando anche la sabbia umida, per raggomitolarsi e dormire quasi coperto dalla sabbia asciutta, poiché sapeva che, dopo la pioggia, l’alba avrebbe portato il freddo nella pianura e il vento avrebbe trasformato in brina gelata le gocce d’acqua che c’erano ancora sulle pietre e sui cespugli.
Ci potevano essere più di cinquanta gradi di differenza nel deserto tra la massima temperatura di mezzogiorno e la minima nell’ora che precedeva l’alba e Gacel sapeva per esperienza che quel freddo traditore riusciva a penetrare nelle ossa del viaggiatore incosciente, lo indeboliva e rendeva per giorni le articolazioni del suo corpo, doloranti e come anchilosate.
Tre cacciatori erano stati trovati congelati nelle pietraie dei contrafforti dell’Huaila e Gacel ricordava ancora i loro cadaveri, stretti l’uno all’altro, uniti dalla morte, in quel freddo inverno in cui la tubercolosi si portò via anche il suo piccolo Bisrha; sembravano sorridere. Poi il sole seccò i loro corpi, disidratandoli e
dando un macabro aspetto alla loro pelle pergamenacea e ai loro denti brillanti.
Era una terra dura quella, in cui un uomo poteva morire di caldo o di freddo in poche ore e in cui una cammella cercava acqua inutilmente per giorni, per morire affogata improvvisamente una mattina.
Una terra dura, e tuttavia Gacel non concepiva la vita in nessun altro luogo, né avrebbe cambiato la sua sete, il suo caldo e il suo freddo nella pianura senza frontiere per la comodità di qualunque altro mondo limitato e senza orizzonti, e ogni giorno, in ciascuna delle sue preghiere, col viso rivolto all’Est, verso La Mecca, ringraziava Allah di permettergli di vivere dove viveva e di appartenere alla benedetta razza del Popolo del Velo, della Lancia o della Spada.
Si addormentò con il desiderio di Laila e al risveglio il duro corpo di donna che stringeva nel sogno si era trasformato in morbida sabbia che scorreva tra le dita.
Piangeva il vento nell’ora del cacciatore.
Contemplò le stelle che gli dissero quanto mancava ancora perché la luce le cancellasse dal firmamento, chiamò nella notte e gli rispose il soave barrire del suo mehari che brucava gli umidi cespugli. Lo sellò e riprese la marcia; verso sera intravide lontano cinque macchie scure che si distaccavano nella pianura pietrosa: l’accampamento di Mubarrak-ben-Sad, Yimohag del Popolo della Lancia che aveva condotto i soldati fino alla sua jaima.
Disse le sue preghiere e si sedette poi su di una roccia liscia a contemplare il tramonto, immerso nei suoi foschi pensieri, poiché capiva che quella doveva essere l’ultima notte in cui poteva dormire in pace in questa vita. All’alba avrebbe dovuto aprire la elgebira delle guerre, delle vendette e degli odi e mai e poi mai
nessuno avrebbe potuto sapere quanto fosse profonda, piena di morte e violenza.
Cercò anche di capire i motivi che avevano spinto Mubarrak a infrangere le più sacre tradizioni targui, ma non ne trovò nessuno. Era una guida del deserto, una buona guida senza alcun dubbio, ma una guida targui aveva l’obbligo di impegnarsi unicamente a condurre carovane, a braccare la selvaggina o ad accompagnare i francesi nelle loro strane spedizioni in cerca di ricordi degli antenati. Mai, per nessuna ragione, un targui aveva il diritto di entrare senza permesso nel territorio di un altro imohag, e ancor meno conducendo stranieri incapaci di rispettare le antiche tradizioni.
Quando quella mattina Mubarrak-ben-Sad aprì gli occhi, un brivido gli percorse la schiena, la paura che da giorni lo assaliva nei sogni lo aggredì adesso da sveglio e, istintivamente, si voltò verso l’entrata della sua sheriba, temendo di trovare ciò che veramente temeva. Lì, in piedi, a trenta metri di distanza, appoggiato all’impugnatura della sua lunga takuba conficcata a terra, Gacel Sayah, nobile inmouchar di Kel-Talgimus, lo aspettava deciso a chiedergli ragione dei suoi atti.
Prese a sua volta la sua spada e avanzò molto lentamente, con fare deciso e dignitoso, per fermarsi a cinque passi di distanza.
«Metulem, metulem», salutò usando l’espressione preferita dai tuareg.
Non ottenne risposta e in realtà neanche la aspettava. Aspettava però la domanda.
«Perché lo hai fatto?»
«Mi ha obbligato il capitano del posto militare di Adoras.»
«Nessuno può obbligare un targui a fare ciò che non desidera.»
«Sono tre anni che lavoro con loro. Non potevo rifiutarmi. Sono guida ufficiale del governo.»
«Hai giurato, come me, di non lavorare mai per i francesi.»
«I francesi sono andati via. Adesso siamo un paese libero.»
Per la seconda volta in pochi giorni due persone diverse gli avevano detto la stessa cosa e, improvvisamente, si rese conto che né l’ufficiale né i soldati indossavano l’odiata divisa coloniale. Nessuno era europeo, né parlavano con il forte accento con cui erano soliti parlare e sui loro veicoli non sventolava l’onnipresente bandiera tricolore.
«I francesi hanno sempre rispettato le nostre tradizioni», mormorò infine quasi per se stesso. «Perché non si rispettano adesso che siamo liberi?»
Mubarrak alzò le spalle.
«I tempi cambiano», disse.
«Non per me», fu la risposta. «Quando il deserto diventerà un’oasi, l’acqua scorrerà liberamente per le sekias e la pioggia cadrà sulle nostre teste tutte le volte in cui ne avremo bisogno, allora cambieranno le usanze dei tuareg. Mai prima.»
Mubarrak mantenne la calma nel domandare: «Questo vuol dire che sei venuto a uccidermi?»
«Per questo sono venuto.»
Mubarrak assentì in silenzio, comprensivo, poi guardò a lungo intorno a sé, la terra ancora umida e i piccoli germogli di acheb che lottavano per affacciarsi tra le rocce e i sassi.
«È stata bella la pioggia», disse.
«Molto bella.»
«Presto la pianura si riempirà di fiori e uno dei due non potrà vederla.»
«Avresti dovuto pensarci prima di portare gli stranieri nel mio accampamento.»
Mubarrak abbassò il suo velo e le sue labbra si mossero in un lieve sorriso. «Allora non era ancora piovuto», rispose. Poi, molto lentamente, sfoderò la sua takuba liberando il brunito acciaio dal fodero di cuoio sbalzato. «Prego che la tua morte non scateni una guerra tra tribù», aggiunse. «Nessuno dei nostri dovrà pagare per le nostre colpe.»
«Così sia», replicò Gacel inchinandosi pronto a ricevere il primo attacco.
Ma questo tardò a venire, perché Mubarrak e Gacel non erano più guerrieri di lancia e spada, ma uomini da arma da fuoco, e le lunghe takubas si erano ridotte, con il passare degli anni, a un puro oggetto di ornamento e da cerimonia, utilizzate, nei giorni di festa, per esibizioni incruente in cui si cercava più l’effetto del colpo contro lo scudo di cuoio o la fìnta abilmente schivata che l’intenzione di ferire.
Ma in quel momento non c’erano né scudi né spettatori disposti ad ammirare salti e capriole mentre l’acciaio lanciava scintille evitando, più che cercando, di far danno all’avversario, e l’avversario ghermiva la sua arma deciso a uccidere per non essere ucciso.
Come parare il colpo senza scudo? Come riprendersi da un salto o da una difficoltà se il rivale non era disposto a concedere l’attimo di recupero?
Si