Javier Salazar Calle

Ndura. Figlio Della Giungla


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un rumore lontano. Farfalle e altri insetti svolazzavano da tutte le parti. Se non fosse stato per la situazione in cui mi trovavo, mi sarei goduto un posto così bello, ma in quel momento tutto rappresentava un potenziale ostacolo alla mia sopravvivenza. E tutto mi faceva paura.

       Dopo una breve ricerca trovai un albero che mi sembrava appropriato e mi arrampicai con entrambi gli zaini sulle spalle. Mi sembrava che pesassero uno sproposito e che il ginocchio supplicasse riposo. Quando mi trovai abbastanza in alto da sentirmi al sicuro, ma non da uccidermi o ferirmi seriamente se fossi caduto di notte, mi sistemai il meglio che potei tra due rami spessi che andavano insieme quasi paralleli e mi coprii un po' con una delle piccole coperte dell’aereo che avevo portato e l’altra la usai come cuscino. Nel cielo riuscii ad intravedere un numero incredibile di grandi pipistrelli marrone scuro che svolazzavano in quel modo caratteristico che hanno di volteggiare apparentemente irregolare e muovendosi d'impulso5. Non sapevo come contarli ma dovevano essercene migliaia; si fermavano soprattutto nelle palme, mangiando i loro frutti, pensavo, o cacciando gli insetti che mangiavano i frutti.

       Dormii probabilmente due ore a piccoli intervalli di quindici o venti minuti. I rumori mi tormentavano da tutte le direzioni, non facevo altro che sentire passi, voci, urla, grida, strilli acuti, ronzii, sussurri, un mormorio costante che saliva e scendeva incessantemente. Mi sembrò persino di sentire il pianto morente di un bambino diverse volte e gli elefanti barrire. Non sapevo se poteva essere quello che sembrava o se semplicemente lo sembrava. Occasionalmente si sentiva qualche ruggito piuttosto inquietante, che mi faceva immaginare qualche bestia selvaggia che mi divorava mentre dormivo.

      A volte l'angoscia mi impediva di respirare, afferrandomi il cuore quasi fino a provocarmi dolore. Ogni suono, ogni movimento, tutto ciò che accadeva intorno a me era un tormento, una sensazione di soffocamento pressante. Non appena riuscivo ad addormentarmi, c'era qualcosa, qualsiasi cosa, che mi obbligava a svegliarmi spaventato. A volte vedevo degli occhi brillare nella notte cupa e, per cercare di tirarmi su di morale, pensavo che fosse un semplice gufo o il parente più stretto che teneva da quelle parti, ma quei tentativi di rimanere positivo duravano poco e finivo sempre per vedere felini senza scrupoli o qualche serpente pericoloso a caccia. Altre volte mi sembrava di sentire spari ravvicinati, scoppi intermittenti, ma se ascoltavo con attenzione non riuscivo a udire nulla.

      “Javier” sentii che mi chiamava Alex.

      “Si, dove sei?” dissi, mentre mi svegliai di soprassalto.

      “Javier” sentii di nuovo.

       Guardai in tutte le direzioni, angosciato, in attesa, ansioso di vedere il mio amico. Fino a quando mi resi conto che Alex era morto e che io ero solo e senza aiuto in mezzo alla giungla. Questo mi spaventava; non potevo contare su nessuno che potesse aiutarmi, con cui condividere il mio dolore in quel momento, la mia disperazione. Non dovevo lasciarmi prendere dal panico, dovevo scacciare i pensieri negativi dalla mia testa per sopravvivere, ma non ne ero in grado. Una soffocante sensazione di solitudine mi costringeva ad approfondire le mie paure.

      “Javier, Javier.”

      Per tutta la notte la sua chiamata fu costante, indagatrice, invitante. Sarei andato con lui se avessi saputo dove andare.

      COME SCOPRO LE MERAVIGLIE DELLA GIUNGLA

      "No, non uccidetelo!" Urlai, agitandomi convulsamente e così facendo caddi dall'albero con un tonfo.

       Mi scossi da un lato all'altro, scappando dai miei stessi fantasmi, ignorando il dolore della caduta. Guardai dappertutto completamente disorientato e mi fermai per un momento, rannicchiato, gemendo come un animale gravemente ferito. Mentre mi massaggiavo la schiena ferita, mi resi conto che era stato un incubo, un incubo molto reale, dal momento che avevo sognato di rivivere la morte di Juan, lo schianto dell'aereo, di nuovo il corpo inerte di Alex nelle mie mani. Il sudore mi colava sulla fronte, le mani mi tremavano. Feci un respiro profondo e decisi di muovermi, desideravo solo allontanarmi il più possibile dall'aereo in cui avevo perso parte della mia vita. Il mio passato era terribile, il mio futuro desolante.

       La schiena mi faceva molto male per la postura che avevo tenuto, per la caduta o per entrambi i motivi, ed ero un po’ arrabbiato. Lamentosamente mi alzai per raccogliere gli zaini e mi resi conto che mancava lo zaino col cibo. Il salto che feci per lo stupore quasi mi fece cadere di nuovo dall'albero. Senza quello zaino non potevo fare niente. Cercai spaventato tra i rami e, quando ormai credevo che non lo avrei più ritrovato, vidi che era steso a terra con tutto il suo contenuto sparso. Probabilmente l'avevo lanciato io, trascinandolo nella mia caduta o muovendomi di notte. Scesi con cura con l'altro zaino sulle spalle e raccolsi tutto quello che trovai: tre lattine di soda, un panino con la salsiccia, alcuni biscotti rosicchiati e pieni di formiche, una scatola con sacchetti di sale da usare nelle insalate e le due scatole, che risultarono essere di mele cotogne. Il resto era scomparso, doveva essere stato portato via dagli animali. Ciò mi fece concludere che era caduto di notte.

       Decisi di fare un inventario di tutto ciò portavo, per vedere cosa poteva essermi utile e buttare via ciò che non lo era. Non aveva senso portare peso inutile e avevo bisogno di sapere di che strumenti potevo disporre. Nel mio zaino, a parte il cibo, portavo il coltello che avevo comprato a mio padre, tutte le figure di legno, un diario di viaggio sull'Africa centrale, un pacchetto di fazzolettini, un binocolo 8x30, un cappello di tela color kaki e una maglietta con scritto "I love Namibia". Del kit di pronto soccorso mi rimanevano una scatola di aspirina a metà, un'intera scatola di antidiarroici, una benda, tre cerotti e alcune pillole per il mal di mare. A parte, ovviamente, i documenti. Anche nello zaino di Juan c'erano i suoi documenti e, inoltre, le tre coperte e un cuscino da aereo, un piccolo libro con frasi Swahili, i suoi occhiali da sole, un berretto, alcune barrette di cioccolato, una bottiglia d’acqua di plastica da un litro quasi vuota, una forchetta, una grande figura di legno di un elefante e molte altre più piccole, un pacchetto quasi pieno di sigarette e un accendino.

       Non potevo portare due zaini, quindi tenni tutto nel mio, che era in condizioni migliori, tranne una delle coperte, il cuscino che occupava molto spazio e tutte le figure di legno, inutili in questo ambiente, che seppellii e coprii con resti di foglie. Mentre scartavo alcune cose, ricordavo le persone per le quali erano; Elena, la mia famiglia, i miei amici, Alex, Juan... e non passò molto tempo prima che ricominciassi a piangere. Non li avrei rivisti mai più, nessuno di loro. Beh, avrei rivisto presto Alex e Juan, in paradiso o dovunque si vada una volta morti.

       In quel momento mangiai le barrette di cioccolato disfatte dal calore, pulendo l'involucro con la lingua fino a quando non ne rimase traccia. Erano buonissime. Bevvi anche quella poca acqua rimasta nella bottiglia. Fu allora che mi resi conto che dovevo fermarmi un attimo per riflettere sui miei passi successivi. Mi vennero in mente alcune domande: i ribelli sapevano che ero vivo? Dove sarei andato adesso?

       Rispetto alla prima domanda, non avevo risposta. Forse erano riusciti a convincere qualche passeggero a confessare che mi aveva visto, forse avevano cercato nei dintorni e avevano trovato le mie tracce o la lattina che avevo gettato a terra dopo averla bevuta (era stato un grosso errore, anche se in quel momento ne avevo abbastanza col problema di dover scappare), forse stavano dappertutto e mi avrebbero trovato comunque, o magari non sapevano nulla. Qualunque cosa fosse successa da quel momento in avanti, avrei dovuto cercare di stare più attento e lasciare il minor numero di tracce possibile ovunque andassi.

       Rispetto a dove andare. Mi sembrava di ricordare che dall'aereo, durante l’atterraggio vertiginoso, avevo visto un villaggio all'orizzonte, in una grande radura nella giungla. Quello che non sapevo era se sarebbe stata la base dei ribelli o no, ma era molto probabile, visto che era molto vicino a dove ci avevano attaccato. Dato che stavamo viaggiando dal Sud Africa verso il nord, dovevo presumere che continuando sempre verso nord avrei lasciato la giungla, sarei arrivato in un altro paese e avrei avuto più possibilità di trovare aiuto. Come mi mancavano i miei amici adesso! In quel momento mi sarebbero serviti l'entusiasmo, l'ottimismo e la gioia traboccanti di Alex e la fredda capacità di analisi, calma e determinazione nell’affrontare le situazioni di Juan. Quanto