Javier Salazar Calle

Ndura. Figlio Della Giungla


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mai pensato di vivere. Ancora una volta mi ricordai dei miei due amici morti e di quanto si sarebbero divertiti a vedere tutto ciò, specialmente il gioviale Alex, sempre così curioso di tutto. Con chi avrei commentato questi momenti, con chi li avrei condivisi? Non c'era nessuno che li avrebbe vissuti con me, che avrebbe potuto capirli. No, non dovevo pensarci, non mi aiutava ad andare avanti, mentre avevo bisogno di raccogliere quanta più energia possibile per sopravvivere. Uscire da questa dannata giungla doveva essere il mio unico obiettivo. Fuga da questo inferno verde.

       Mi tolsi le scarpe, le strizzai un po' per far uscire l'acqua e le agganciai alle estremità di alcuni rami per asciugarle. Poi presi la bottiglia d'acqua e cercai un posto con acqua corrente per riempirla, mi sembrava di aver letto che era peggio prenderla in luoghi dove l'acqua era stagnante perché c'erano più possibilità che non fosse salutare o che contenesse qualche tipo di parassita. Certo, avrei potuto ricordarmene prima di bere. Tutto il mio corpo non smetteva di prudere, anche se con meno intensità di prima. Sentivo delle fitte alla coscia e quando la guardai per vedere se avesse preso qualche botta, trovai una sanguisuga che mi si era attaccata alla gamba per succhiare il sangue. Era una specie di lumaca, forse più sottile. Prima mi spaventai, poi reagii e pensai a come risolvere la cosa. Se non mi ricordavo male, le sanguisughe venivano rimosse con il sale o bruciandole. Tirai fuori l'accendino e le avvicinai la fiamma fino a quando non si restrinse, approfittai di quel momento per staccarla con il coltello. Dove prima era attaccata restava solo una macchia rossa, una goccia di sangue trasudava dal bordo. Bruciai la punta del coltello con l'accendino e accuratamente cauterizzai la ferita. Non avevo idea se le sanguisughe infettassero o meno la ferita che producevano e preferivo non rischiare. Mi fece così male che dovetti fare grandi sforzi per non urlare con tutte le mie forze. Controllai il resto del corpo per vedere se ne avevo altre, ma era l'unica. Sulla gamba avevo la forma della punta del mio coltello incisa a fuoco. Mi sarebbe uscita una vescica tremenda. Forse non avrei dovuto fare quella barbarie.

       La pigrizia prese il controllo del mio corpo e decisi di concedermi una mattinata libera. Così tante emozioni di seguito stancavano, ero devastato e il mio corpo pesava uno sproposito. Cercai un posto ombreggiato e quando mi asciugai mi misi i vestiti e la maglietta ricordo della Namibia, che portavo nello zaino, la usai per coprirmi tutta la testa, inclusa la faccia, per evitare i fastidiosi e numerosi insetti che popolavano la riva. Prima di coricarmi osservai un cespuglio lì vicino, ne avevo visti abbastanza come questo, con un vistoso frutto color carminio con piccoli semi bluastri13. Sarebbe stato commestibile? Schiacciai qualche formica sbadata che non era ancora riuscita e scrollarsi dai vestiti. Chiusi gli occhi e mi lasciai trasportare da uno stato di sonnolenza, di torpore, il calore e l'umidità producevano pesantezza nei muscoli e nella volontà.

       Uno sparo, poi una raffica di qualche arma automatica, altri colpi. Mi alzai di scatto. Si sentivano dall'altra sponda del fiume, sebbene lontani. Davvero non me lo aspettavo, mi avrebbero trovato da un momento all'altro. All'improvviso ripresi nuovamente coscienza che la mia situazione non mi permetteva di rilassarmi, che non mantenere tutti i miei sensi in costante allerta sarebbe stata la mia rovina.

       Rapidamente raccolsi tutte le cose, misi la maglietta nello zaino, indossai le calze e le scarpe e raccolsi il bastone. Erano ancora bagnate, ma in quel momento non avevo tempo di fissarmi su quei dettagli. Decisi che il modo migliore per arrivare da qualche parte era di continuare lungo il letto del fiume, ma dal momento che seguirlo lungo la riva mi sembrava molto pericoloso, mi addentrai di nuovo nella giungla per cercare di passare inosservato tra il fogliame e camminare a quattro o cinque metri parallelamente al fiume. Era un mondo chiuso, dove guardando in qualsiasi direzione non trovavo altro che un impenetrabile muro verde senza via d'uscita. Al massimo vedevo a tre o quattro metri di distanza da me. Presto persi il fiume e ancora una volta mi ritrovai sulla strada verso il nulla.

       Continuai a camminare a un ritmo a volte molto veloce e talvolta più morbido per tutto il pomeriggio, con pochi momenti di tregua. Quanto bastava per riprendere fiato e ascoltare se si udivano altri spari. Dovetti sopportare permanentemente il suono, simile a quello prodotto quando si pesta una pozzanghera, che facevano le mie scarpe ad ogni passo e sporadici avvertimenti di crampi al polpaccio. A volte la densità del fogliame aumentava, immergendo alcuni luoghi nell'ombra. C'erano zanzare dappertutto, non smettevano di tormentarmi come se si trattasse di una battaglia senza fine. A volte mi ricordavano i kamikaze giapponesi della seconda guerra mondiale, che piombavano sul bersaglio senza preoccuparsi della propria vita. Le zanzare erano uguali, si lanciavano continuamente sul mio corpo senza preoccuparsi delle vittime che causavano i miei colpi, usando le mie mani come artiglieria antiaerea. Alcune erano così grandi che, piuttosto che aerei da combattimento, sembravano giganteschi bombardieri la cui semplice presenza produceva apprensione nel nemico. Quando le vedevo avvicinarsi, mi mettevo immediatamente in tensione, pronto a evitarle. Ce n’era sempre qualcuna con appetito e avevo infiniti morsi su braccia e gambe, lì dove i vestiti non mi coprivano il corpo. Alcune stavano persino sulle stesse punture che mi avevano causato le formiche quando mi ero svegliato. Era una battaglia persa in partenza, una lotta banale, futile, inutile, poiché loro non avevano fine e io ero sempre più stanco. Mi infastidivano così tanto che decisi di coprire le parti su cui non avevo vestiti con della terra umida, formando una barriera impenetrabile per loro. Quell'idea fugace mi salvò. Era scomodo per muoversi, specialmente quando si seccava, ma erano peggiori i loro continui attacchi. Grazie a questo trucco potei dimenticarmi a lungo degli implacabili insetti e, anche se non ottenni la vittoria, almeno ottenni una tregua temporanea. Inoltre, ebbe l'effetto sorprendente di spegnere il prurito lì dove erano passate le formiche. Un po' di fortuna finalmente.

       Continuavo ad osservare tutto ciò che mi circondava, avevo la costante sensazione di essere seguito, di essere sempre più circondato, messo alle strette in una giungla illimitata. Mi sembrava persino di sentire passi e voci dietro di me o di vedere volti fugaci di guerriglieri che mi fissavano ferocemente tra gli alberi, sorvegliandomi senza sosta. La verità è che non riuscii a vedere nessuno chiaramente, non potei nemmeno notare alcuna traccia della loro presenza nell'area. Mi sembrava che gli alberi si piegassero sulla mia testa, imprigionandomi sempre più in una cella di legno vivente. Non sapevo se stavo diventando paranoico o cosa, ma dovevo calmarmi per sopravvivere in quella giungla sconosciuta e mortale.

       In quel folle vagare trovai uno spettacolo dantesco. Ciò che sembrava essere stata una famiglia di primati, delle dimensioni di uno scimpanzé o simili, giaceva in una radura senza mani, piedi o teste, in mezzo a grandi pozze di sangue secco e circondati da miriadi di mosche e ogni sorta di insetti e animali spazzini. La puzza che emanavano era insopportabile e non riuscii a evitare il vomito, che mi salì all'istante su per la gola. Raccolsi il mio coraggio e guardai di nuovo. Ce n'erano due che dovevano essere adulti e uno più piccolo. Sembrava che non ci fossero piccoli, ciò che non sapevo era se non c’erano perché non li avevano catturati, perché non ne avevano, o se perché li avevano portati via per venderli sul mercato nero. Sapevo che c'erano alcune parti di animali che si vendevano molto bene come afrodisiaci nei paesi asiatici: corni di rinoceronte, ossa di tigre e simili. Forse era qualcosa del genere. Decisi di allontanarmi da quel luogo maledetto il prima possibile. Quella scoperta non solo mi dimostrò ancora una volta la crudeltà umana, ma mi mostrò anche che stavo camminando in zone frequentate da bracconieri, sicuramente non molto amichevoli con gli estranei.

       Era troppo scioccato da tutto ciò che stava succedendo. Alla fine, a un certo punto, mi venne un forte crampo al polpaccio della gamba destra che mi costrinse a fermarmi per allungare il polpaccio, mentre serravo forte la bocca per il dolore e mi dimenavo per terra. Dovetti restare seduto a lungo prima di potermi muovere di nuovo e mi tormentò senza sosta per tutto il resto della giornata. Diverse volte pensai che il crampo stesse tornando e mi dovetti fermare per allungare la gamba. Al crepuscolo ero completamente esausto e non ero avanzato troppo a causa del ritmo lento che avevo dovuto tenere. Soprattutto, avevo le gambe esauste per il tanto camminare, il ginocchio e il polpaccio erano doloranti e i piedi intorpiditi. Guardando la cosa da un punto di vista positivo, se ne fossi uscito, avrei eliminato l’incipiente pancetta da birra che mi stava uscendo. Ere già qualcosa. Non dovevo perdere il senso dell'umorismo, quello avrebbe potuto salvarmi. Era l'unica cosa che mi rimaneva, quello e il mio desiderio di vivere. Elena, cosa non darei adesso per un tuo abbraccio, per il tuo sorriso! O per uno di quei