alla volontà del padrone per amore alla libertà. Bisognava perciò dargli la libertà assoluta e nello stesso tempo dovevo guardare il mio vizio in faccia come se fosse nuovo e non l’avessi mai visto. Bisognava non combatterlo, ma trascurarlo e dimenticare in certo modo di abbandonarvisi volgendogli le spalle con noncuranza come a compagnia che si riconosce indegna di sé. Semplice, nevvero?
Infatti la cosa mi parve semplice. È poi vero ch’essendo riuscito con grande sforzo ad eliminare dal mio animo ogni proposito, riuscii a non fumare per varie ore, ma quando la bocca fu nettata, sentii un sapore innocente quale deve sentirlo il neonato, mi venne il desiderio di una sigaretta e quando la fumai ne ebbi il rimorso da cui rinnovai il proposito che avevo voluto abolire. Era una via più lunga, ma si arrivava alla stessa meta.
Quella canaglia dell’Olivi mi diede un giorno un’idea: fortificare il mio proposito con una scommessa.
Io credo che l’Olivi abbia avuto sempre lo stesso aspetto che io gli vedo adesso. Lo vidi sempre così, un po’ curvo, ma solido e a me parve sempre vecchio, come vecchio lo vedo oggidì che ha ottant’anni. Ha lavorato e lavora per me, ma io non l’amo perché penso che mi ha impedito il lavoro che fa lui.
Scommettemmo! Il primo che avrebbe fumato avrebbe pagato eppoi ambedue avrebbero ricuperato la propria libertà. Così l’amministratore, impostomi per impedire ch’io sciupassi l’eredità di mio padre, tentava di diminuire quella di mia madre, amministrata liberamente da me!
La scommessa si dimostrò perniciosissima. Non ero più alternativamente padrone ma soltanto schiavo e di quell’Olivi che non amavo! Fumai subito. Poi pensai di truffarlo continuando a fumare di nascosto. Ma allora perché aver fatta quella scommessa? Corsi allora in cerca di una data che stesse in bella relazione con la data della scommessa per fumare un’ultima sigaretta che così in certo modo avrei potuto figurarmi fosse registrata anche dall’Olivi stesso. Ma la ribellione continuava e a forza di fumare arrivavo all’affanno. Per liberarmi di quel peso andai dall’Olivi e mi confessai.
Il vecchio incassò sorridendo il denaro e, subito, trasse di tasca un grosso sigaro che accese e fumò con grande voluttà. Non ebbi mai un dubbio ch’egli non avesse tenuta la scommessa. Si capisce che gli altri son fatti altrimenti di me.
Mio figlio aveva da poco compiuti i tre anni quando mia moglie ebbe una buona idea. Mi consigliò, per sviziarmi, di farmi rinchiudere per qualche tempo in una casa di salute. Accettai subito, prima di tutto perché volevo che quando mio figlio fosse giunto all’età di potermi giudicare mi trovasse equilibrato e sereno, eppoi per la ragione più urgente che l’Olivi stava male e minacciava di abbandonarmi per cui avrei potuto essere obbligato di prendere il suo posto da un momento all’altro e mi consideravo poco atto ad una grande attività con tutta quella nicotina in corpo.
Dapprima avevamo pensato di andare in Isvizzera, il paese classico delle case di salute, ma poi apprendemmo che a Trieste v’era un certo dottor Muli che vi aveva aperto uno stabilimento. Incaricai mia moglie di recarsi da lui, ed egli le offerse di mettere a mia disposizione un appartamentino chiuso nel quale sarei stato sorvegliato da un’infermiera coadiuvata anche da altre persone. Parlandomene mia moglie ora sorrideva ed ora clamorosamente rideva. La divertiva l’idea di farmi rinchiudere ed io di cuore ne ridevo con lei. Era la prima volta ch’essa s’associava a me nei miei tentativi di curarmi. Fino allora ella non aveva mai presa la mia malattia sul serio e diceva che il fumo non era altro che un modo un po’ strano e non troppo noioso di vivere. Io credo ch’essa fosse stata sorpresa gradevolmente dopo di avermi sposato di non sentirmi mai rimpiangere la mia libertà, occupato com’ero a rimpiangere altre cose.
Andammo alla casa di salute il giorno in cui l’Olivi mi disse che in nessun caso sarebbe rimasto da me oltre il mese dopo. A casa preparammo un po’ di biancheria in un baule e subito di sera andammo dal dottor Muli.
Egli ci accolse in persona alla porta. Allora il dottor Muli era un bel giovane. Si era in pieno d’estate ed egli, piccolo, nervoso, la faccina brunita dal sole nella quale brillavano ancor meglio i suoi vivaci occhi neri, era l’immagine dell’eleganza, nel suo vestito bianco dal colletto fino alle scarpe. Egli destò la mia ammirazione, ma evidentemente ero anch’io oggetto della sua.
Un po’ imbarazzato, comprendendo la ragione della sua ammirazione, gli dissi:
– Già: Ella non crede né alla necessità della cura né alla serietà con cui mi vi accingo.
Con un lieve sorriso, che pur mi ferì, il dottore rispose:
– Perché? Forse è vero che la sigaretta è più dannosa per lei di quanto noi medici ammettiamo. Solo non capisco perché lei, invece di cessare ex abrupto di fumare, non si sia piuttosto risolto di diminuire il numero delle sigarette che fuma. Si può fumare, ma non bisogna esagerare.
In verità, a forza di voler cessare del tutto dal fumare, all’eventualità di fumare di meno non avevo mai pensato. Ma venuto ora, quel consiglio non poteva che affievolire il mio proposito. Dissi una parola risoluta:
– Giacché è deciso, lasci che tenti questa cura.
– Tentare? – e il dottore rise con aria di superiorità. – Una volta che lei vi si è accinto, la cura deve riuscire. Se Lei non vorrà usare della sua forza muscolare con la povera Giovanna, non potrà uscire di qua. Le formalità per liberarla durerebbero tanto che nel frattempo ella avrebbe dimenticato il suo vizio.
Ci trovavamo nell’appartamento che m’era destinato a cui eravamo giunti ritornando a pianoterra dopo di essere saliti al secondo piano.
– Vede? Quella porta sbarrata impedisce la comunicazione con l’altra parte del pianterreno dove si trova l’uscita. Neppure Giovanna ne ha le chiavi. Essa stessa per arrivare all’aperto deve salire al secondo piano ed ha solo lei le chiavi di quella porta che si è aperta per noi su quel pianerottolo. Del resto, al secondo piano c’è sempre sorveglianza. Non c’è male nevvero per una casa di salute destinata a bambini e puerpere?
E si mise a ridere, forse all’idea di avermi rinchiuso fra bambini.
Chiamò Giovanna e me la presentò. Era una piccola donnina di un’età che non si poteva precisare e che poteva variare fra’ quaranta e i sessant’anni. Aveva dei piccoli occhi di una luce intensa sotto ai capelli molto grigi. Il dottore le disse:
– Ecco il signore col quale dovete essere pronta di fare i pugni.
Essa mi guardò scrutandomi, si fece molto rossa e gridò con voce stridula:
– Io farò il mio dovere, ma non posso certo lottare con lei. Se lei minaccerà, io chiamerò l’infermiere ch’è un uomo forte e, se non venisse subito, la lascerei andare dove vuole perché io non voglio certo rischiare la pelle!
Appresi poi che il dottore le aveva affidato quell’incarico con la promessa di un compenso abbastanza lauto, e ciò aveva contribuito a spaventarla. Allora le sue parole m’indispettirono. M’ero cacciato volontariamente in una bella posizione!
– Ma che pelle d’Egitto! – urlai. – Chi toccherà la sua pelle? – Mi rivolsi al dottore: – Vorrei che questa donna sia avvisata di non seccarmi! Ho portati con me alcuni libri e vorrei essere lasciato in pace.
Il dottore intervenne con qualche parola di ammonimento a Giovanna. Per scusarsi, costei continuò ad attaccarmi:
– Io ho delle figliuole, due e piccine, e devo vivere.
– Io non mi degnerei di ammazzarla, – risposi con accento che certo non poteva rassicurare la poverina.
Il dottore la fece allontanare incaricandola di andar a prendere non so che cosa al piano superiore e, per rabbonirmi, mi propose di mettere un’altra persona al suo posto, aggiungendo:
– Non è una cattiva donna e quando le avrò raccomandato di essere più discreta, non le darà altro motivo a lagnanze.
Nel desiderio di dimostrare che non davo alcuna importanza alla persona incaricata di sorvegliarmi, mi dichiarai d’accordo di sopportarla. Sentii il bisogno di quietarmi, levai di tasca la penultima sigaretta e la fumai avidamente. Spiegai al dottore che ne avevo prese con me solo due e che volevo cessar di fumare in punto alla mezzanotte.
Mia