Giosue Carducci

Odi barbare


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e né meno ti guarda,

      una pallida torma che si credé gioire.

      Sbatte l’operaio rabbioso le stridule impòste,

      e maledice al giorno che rimena il servaggio.

      Solo un amante forse che placida al sonno commise

      la dolce donna, caldo de’ baci suoi le vene,

      alacre affronta e lieto l’aure tue gelide e il viso:

      – Portami —, dice, – Aurora, su ‘l tuo corsier di fiamma!

      ne i campi de le stelle mi porta, ond’io vegga la terra

      tutta risorridente nel roseo lume tuo,

      e vegga la mia donna davanti al sole che leva

      sparsa le nere trecce giú pe ‘l rorido seno. —

      NELL’ANNUALE DELLA FONDAZIONE DI ROMA

      Te redimito di fior purpurei

      april te vide su ‘l colle emergere

      da ‘l solco di Romolo torva

      riguardante su i selvaggi piani:

      te dopo tanta forza di secoli

      aprile irraggia, sublime, massima,

      e il sole e l’Italia saluta

      te, Flora di nostra gente, o Roma.

      Se al Campidoglio non piú la vergine

      tacita sale dietro il pontefice

      né piú per Via Sacra il trionfo

      piega i quattro candidi cavalli,

      questa del Fòro tua solitudine

      ogni rumore vince, ogni gloria;

      e tutto che al mondo è civile,

      grande, augusto, egli è romano ancora.

      Salve, dea Roma! Chi disconósceti

      cerchiato ha il senno di fredda tenebra,

      e a lui nel reo cuore germoglia

      torpida la selva di barbarie.

      Salve, dea Roma! Chinato a i ruderi

      del Fòro, io seguo con dolci lacrime

      e adoro i tuoi sparsi vestigi,

      patria, diva, santa genitrice.

      Son cittadino per te d’Italia,

      per te poeta, madre de i popoli,

      che desti il tuo spirito al mondo,

      che Italia improntasti di tua gloria.

      Ecco, a te questa, che tu di libere

      genti facesti nome uno, Italia,

      ritorna, e s’abbraccia al tuo petto,

      affisa ne’ tuoi d’aquila occhi.

      E tu dal colle fatal pe ‘l tacito

      Fòro le braccia porgi marmoree,

      a la figlia liberatrice

      additando le colonne e gli archi:

      gli archi che nuovi trionfi aspettano

      non piú di regi, non piú di cesari,

      e non di catene attorcenti

      braccia umane su gli eburnei carri;

      ma il tuo trionfo, popol d’Italia,

      su l’età nera, su l’età barbara,

      su i mostri onde tu con serena

      giustizia farai franche le genti.

      O Italia, o Roma! quel giorno, placido

      tornerà il cielo su ‘l Fòro, e cantici

      di gloria, di gloria, di gloria

      correran per l’infinito azzurro.

      DINANZI ALLE TERME DI CARACALLA

      Corron tra ‘l Celio fosche e l’Aventino

      le nubi: il vento dal pian tristo move

      umido: in fondo stanno i monti albani

      bianchi di nevi.

      A le cineree trecce alzato il velo

      verde, nel libro una britanna cerca

      queste minacce di romane mura

      al cielo e al tempo.

      Continui, densi, neri, crocidanti

      versansi i corvi come fluttuando

      contro i due muri ch’a piú ardua sfida

      levansi enormi.

      – Vecchi giganti, – par che insista irato

      l’augure stormo – a che tentate il cielo? —

      Grave per l’aure vien da Laterano

      suon di campane.

      Ed un ciociaro, nel mantello avvolto,

      grave fischiando tra la folta barba,

      passa e non guarda. Febbre, io qui t’invoco,

      nume presente.

      Se ti fûr cari i grandi occhi piangenti

      e de le madri le protese braccia

      te deprecanti, o dea, da ‘l reclinato

      capo de i figli:

      se ti fu cara su ‘l Palazio eccelso

      l’ara vetusta (ancor lambiva il Tebro

      l’evandrio colle, e veleggiando a sera

      tra ‘l Campidoglio

      e l’Aventino il reduce quirite

      guardava in alto la città quadrata

      dal sole arrisa, e mormorava un lento

      saturnio carme);

      Febbre, m’ascolta. Gli uomini novelli

      quinci respingi e lor picciole cose:

      religïoso è questo orror: la dea

      Roma qui dorme.

      Poggiata il capo al Palatino augusto,

      tra ‘l Celio aperte e l’Aventin le braccia,

      per la Capena i forti omeri stende

      a l’Appia via.

      ALLA VITTORIA

TRA LE ROVINE DEL TEMPIO DI VESPASIANO IN BRESCIA

      Scuotesti, vergin divina, l’auspice

      ala su gli elmi chini de i pèltasti,

      poggiasti il ginocchio a lo scudo,

      aspettanti con l’aste protese?

      o pur volasti davanti l’aquile,

      davanti i flutti de’ marsi militi,

      co ‘l miro fulgor respingendo

      gli annitrenti cavalli de i Parti?

      Raccolte or l’ali, sopra la galea

      del vinto insisti fiera co ‘l poplite,

      qual nome di vittorïoso

      capitano su ‘l clipeo scrivendo?

      È d’un arconte, che sovra i despoti

      gloriò le sante leggi de’ liberi?

      d’un consol, che il nome i confini

      e il terror de l’impero