Giosue Carducci

Odi barbare


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te d’argento il fulgid’arco in pugno,

      presente Apollo!

      A te i colloqui di Stagira, i baci

      a te co’ serti de le ionie donne,

      a te la coppa di Lieo spumante,

      a te l’Olimpo.

      Lisippo in bronzo ed in colori Apelle

      ti tragga eterno: ti sollevi Atene,

      chete de’ torvi demagoghi l’ire,

      al Partenone.

      Noi ti seguiamo: il Nilo in vano occulta

      i dogmi e il capo a la possanza nostra:

      noi farem pace qui tra i numi e al mondo

      luce comune.

      E se ti piaccia aggiogar tigri e linci,

      Bacco novello, noi verrem cantando,

      te duce, in riva al sacro Gange i sacri

      canti d’Omero. —

      Tale il peana de gli achei sonava.

      E il giovin duce, liberato il biondo

      capo da l’elmo, in fronte a la falange

      guardava il mare.

      Guardava il mare e l’isola di Faro

      innanzi, a torno il libico deserto

      interminato: dal sudato petto

      l’aurea corazza

      sciolse, e gittolla splendida nel piano:

      – Come la mia macedone corazza

      stia nel deserto e a’ barbari ed a gli anni

      regga Alessandria. —

      Disse; ed i solchi a le nascenti mura

      ei disegnava per ottanta stadi,

      bianco spargendo su le flave arene

      fior di farina.

      Tale il nipote del Pelíde estrusse

      la sua cittade; e Faro, inclito nome

      di luce al mondo, illuminò le vie

      d’Africa e d’Asia.

      E non il flutto del deserto urtante

      e non la fuga de i barbarici anni

      valse a domare quella balda figlia

      del greco eroe.

      Alacre, industre, a la sua terza vita

      ella sorgea, sollecitando i fati,

      qual la vedesti, o pellegrin poeta,

      ammiratore,

      quando fuggendo la incombente notte

      di tirannia, pien d’inni il caldo ingegno,

      ivi chiedendo libertade e luce

      a l’orïente,

      e su le tombe di turbanti insculte

      star la colonna di Pompeo vedesti

      come la forza del pensier latino

      su ‘l torbid’evo.

      Deh, le speranze de l’Egitto e i vanti

      nel tuo volume vivano, o poeta!

      Oggi Tifone l’ire del deserto

      agita e spira.

      Sepolto Osiri, il latratore Anubi

      morde a i calcagni la fuggente Europa,

      e avanti chiama i bestïali numi

      a le vendette.

      Ahi vecchia Europa, che su ‘l mondo spargi

      l’irrequïeta debolezza tua,

      come la triste fisa a l’orïente

      sfinge sorride!

      IN UNA CHIESA GOTICA

      Sorgono e in agili file dilungano

      gl’immani ed ardui steli marmorei,

      e ne la tenebra sacra somigliano

      di giganti un esercito

      che guerra mediti con l’invisibile:

      le arcate salgono chete, si slanciano

      quindi a vol rapide, poi si rabbracciano

      prone per l’alto e pendule.

      Ne la discordia cosí de gli uomini

      di fra i barbarici tumuli salgono

      a Dio gli aneliti di solinghe anime

      che in lui si ricongiungono.

      Io non Dio chieggovi, steli marmorei,

      arcate aeree: tremo, ma vigile

      al suon d’un cognito passo che piccolo

      i solenni echi suscita.

      È Lidia, e volgesi: lente nel volgersi

      le chiome lucide mi si disegnano,

      e amore e il pallido viso fuggevoli

      tra il nero velo arridono.

      Anch’ei, tra ‘l dubbio giorno d’un gotico

      tempio avvolgendosi, l’Alighier, trepido

      cercò l’imagine di Dio nel gemmeo

      pallore d’una femina.

      Sott’esso il candido vel, de la vergine

      la fronte limpida fulgea ne l’estasi,

      mentre fra nuvoli d’incenso fervide

      le litanie salíano;

      salian co’ murmuri molli, co’ fremiti

      lieti saliano d’un vol di tortore,

      e poi con l’ululo di turbe misere

      che al ciel le braccia tendono.

      Mandava l’organo pe’ cupi spazii

      sospiri e strepiti: da l’arche candide

      parea che l’anime de’ consanguinei

      sotterra rispondessero.

      Ma da le mitiche vette di Fiesole

      tra le pie storie pe’ vetri roseo

      guardava Apolline: su l’altar massimo

      impallidiano i cerei.

      E Dante ascendere tra inni d’angeli

      la tosca vergine transfigurantesi

      vedea, sentiasi sotto i piè ruggere

      rossi d’inferno i baratri.

      Non io le angeliche glorie né i démoni,

      io veggo un fievole baglior che tremola

      per l’umid’aere: freddo crepuscolo

      fascia di tedio l’anima.

      Addio, semitico nume! Continua

      ne’ tuoi misterii la morte domina.

      O inaccessibile re de gli spiriti,

      tuoi templi il sole escludono.

      Cruciato martire tu cruci gli uomini,

      tu di tristizia l’aër contamini:

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