Italo Svevo

Una vita


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la sua conversazione riusciva interessante; leggeva tutti i nuovi romanzi francesi e ne parlava da un certo punto di vista che dava originalità alle sue osservazioni. Non amava i romanzi più moderni; ne comprendeva, a quanto Alfonso poteva giudicare, tutti i meriti, ma non li amava sempre. Vi trovava una cosa di troppo o altra di troppo poco e finiva col dirne male. Offendeva il feticismo di Alfonso parlando con famigliarità sprezzante degli scrittori più celebri. «Quegli dava il titolo al suo romanzo per attirare gli acquirenti, l’altro scriveva porcherie al medesimo scopo, il terzo che si diceva buono, scrittore che veniva letto dalle signorine, era un birbante che legnava sua madre.»

      Offerse ad Alfonso dei libri in prestito, e, dimenticandosi sempre di portarglieli, una sera lo condusse seco a prenderli. Abitava nel centro della città in un primo piano spazioso. Attraversata una piccola anticamera, entrarono in uno stanzone non ammobigliato che da un tavolo e alcune sedie; le finestre erano senza coltrinaggi. In tanta luce e per tanto spazio la stanza rimaneva troppo nuda.

      Vestita di un accappatoio color rosa, bionda, dai tratti troppo regolari, una donna era seduta accanto ad una finestra lavorando al telaio.

      – Ma femme – disse White presentando, e poi: – Mon ami Monsieur Nitti.

      La signora s’era alzata a stento, impedita dal panno che pendeva dal telaio. I due presentati si guardarono, lui mormorando una parola di complimento, ella proprio attendendo ch’egli se ne andasse per rimettersi al lavoro. White s’era precipitato in una stanza vicina e Alfonso, seccato di trovarsi muto con una muta, dopo un inchino leggermente corrisposto lo seguì.

      La stanza da letto aveva i due letti uno accanto all’altro, un armadio e alcune sedie. I libri di White, una ventina, giacevano in disordine sul pavimento, sotto all’unica finestra, anche questa mancante di coltrinaggi. Non un quadro alle pareti; nulla di più del necessario; sembravano due stanze ammobigliate per albergarci per qualche tempo, non un’abitazione.

      Uscì con White, e con la donna di costui si ripeté la medesima scena. Ella si rialzò colla medesima premura, la faccia tranquilla per indifferenza, e il panno una seconda volta minacciò di farla cadere.

      Alfonso chiese con sorpresa a White:

      – Da quando è ammogliato?

      White fu preso da una grande ilarità:

      – Ammogliato? Da molto tempo, ma con questa mano! – e alzò la sinistra.

      Una donna con un bambino in braccio entrò nella casa.

      – Mio figlio! – gridò White toccando il bambino con il bastone; – mi rassomiglia un poco; tiene la schiena come me.

      Il bambino s’appoggiava coi braccini sulla spalla della donna che lo teneva troppo in alto e lo costringeva quindi a curvarsi.

      – Noi siamo più sinceri di voi; io faccio pubblicamente tutte le mie cose e i parenti che ho qui me ne vogliono perciò, ma io me ne infischio formidabilmente.

      Parlava l’italiano con disinvoltura, però si capiva che traduceva dal francese.

      Un giorno nella stanza d’Alfonso, mentre c’era White entrò Annetta con un’amica alla quale faceva vedere la banca. Salutò con grande dimestichezza White, lo presentò all’amica e principiò con lui un vivace chiacchierio in francese. Congedandosi, disse ad Alfonso con un sorriso cortese:

      – Anche lei… mi farà piacere!

      Alfonso s’inchinò ma non aveva compreso.

      Annetta era vestita in lutto per la morte di un lontano parente ch’essa non aveva neppur conosciuto. Il bruno la vestiva meglio che non il chiaro perché la faceva più magra; i suoi occhi parevano persino più espressivi.

      – Che cosa mi ha detto? – chiese Alfonso a White.

      – Ha invitato me a casa sua e così ha invitato anche lei – rispose White con noncuranza, – io non ci andrò!

      – Ed io neppure! – affermò Alfonso risolutamente.

      Al suo ritorno, Sanneo salutò gl’impiegati più freddamente che alla partenza. Rientrato alla banca ridiveniva immediatamente il capo, mentre partendo aveva avuto il tempo di salutarli da collega.

      Il primo giorno Miceni lo passò nella stanza di Sanneo per consegnargli i sospesi. Poi tutto riprese le vie usate e solo Miceni non seppe trovare la sua. Camminava per la banca più stecchito del solito, in ozio perché essendo assuefatto al lavoro di Sanneo non era occupato abbastanza dal suo. Rimpiangeva quei quindici giorni di quasi sovranità, lodava il contegno che avevano avuto con lui i direttori ma più di tutto esaltava il genere di lavoro di Sanneo.

      – Questo è tutt’altra cosa! – esclamava con disprezzo accennando alle sue carte, – niente varietà e niente d’iniziativa!

      Nella stanza era ora l’unico a lagnarsi della vita da travetto. Alfonso era ozioso perché Sanneo non gli aveva dato ancora da fare delle offerte e si godeva le poesie del de Musset.

      Ben presto tutti alla banca seppero che i rapporti fra Miceni e Sanneo erano divenuti difficili e da tutti ne veniva attribuita la colpa a Miceni.

      Sanneo aveva l’abitudine di segnare con degli N.B. (Notabene) le lettere per la cui risposta egli voleva dare degli ordini, imponendo così al corrispondente di andare da lui a chiederglieli prima di rispondere. Ballina, che aveva la specialità di formare i neologismi necessari agli usi speciali della banca, stabilì che andare a notabenarsi significava recarsi dal capo corrispondente a chiedergli la spiegazione dei suoi segni.

      Ora Miceni, perché riteneva di non abbisognare di tante spiegazioni o per poltroneria, spesso ometteva di fare la cosa così designata da Ballina; più spesso ancora, dopo ricevute le istruzioni, le modificava preferendo la propria all’idea di Sanneo. Questi attribuiva tutte queste irregolarità a sbadataggine e non le puniva che rimandando le lettere con l’ordine di mutarle, e Miceni dal canto suo non trovava altro modo di vendicarsi che scrivendo le lettere con calligrafia trascurata e mormorando:

      – Finirò col fargliele rifare a lui!

      Quest’inimicizia avrebbe potuto restare latente per molto tempo se Miceni in un momento d’ira non avesse chiaramente spiegato a Sanneo tutto il suo malvolere.

      Erano le ore di maggior furia di lavoro, alla sera, e Sanneo trovò una lettera di Miceni fatta del tutto diversamente dal modo ch’egli avrebbe voluto; si rammentò anche che per quella lettera Miceni non s’era notabenato.

      Venne da Miceni a passo di corsa, agitatissimo perché sospettava che l’errore fosse stato fatto scientemente.

      – Questa lettera non può partire – e la scuoteva con la mano nervosa; – io voleva che si scrivesse altrimenti, non ha visto il notabene? Mi faccia vedere la lettera originale!

      Visto che Miceni, che voleva guadagnare tempo, si moveva con troppa lentezza, prese lui il pacco di lettere, le sparse sul tavolo e ne trasse il corpo del delitto.

      – Non vide questo notabene? – gridò furibondo.

      Infatti era difficile non vederlo. Era fatto con una matita rossa; la prima gamba della N correva larga diagonalmente attraverso la facciata, la seconda era più breve ma soltanto perché dopo essersene staccata rimaneva parallela alla prima e lo spazio più non bastava; il B si spingeva più piccolo sin fuori della facciata e gli mancava una gobba.

      – L’ho visto – gridò Miceni stizzitosi perché la predica gli era fatta dinanzi ad Alfonso e a White, – avevo però già domandato le istruzioni per le altre lettere, e quando mi capitò questa trovai troppo faticoso di correre fino da lei per chiederle delle spiegazioni che supponevo avessero ad essere, come al solito, superflue.

      La sua voce aveva dei suoni acuti; una volta scoppiata, l’ira lungamente covata gli faceva dire tutto quanto pensava.

      – Ah! così! – urlò Sanneo dopo un istante di sorpresa a tanta petulanza, e stracciò la lettera, – crede che io faccia i notabene per mio piacere? Rifaccia subito questa lettera!

      Con voce tremante, interrotta dalla commozione, gli diede le istruzioni.

      – Ma poiché non posso più