è bella?»
«Oh sí!»
«Anch’essa ha detto che sei un bel giovanotto.»
A quelle parole parve ad Alberto che la luna irradiasse di un’aureola l’Adelina.
«Anche te ti sei fatta bella!…» disse col coraggio della gratitudine.
«Davvero?»
«Davvero.»
Ella sorrise, chinò il capo, incrociò le pallide manine sulle ginocchia, e il raggio della luna sembrò farsi vermiglio sulle sue guance.
L’usignuolo cantava: passò un alito di venticello che fece stormire lievemente le foglie. Essi si sentivano l’uno accanto l’altra. Tutt’a un tratto la fanciulla scoppiò a ridere.
«Oggi volevo darti del lei, vedi!»
«O perché?»
«Perché ti sei fatto grande: avevo suggezione di te… ecco!»
«Oh!»
Ella si volse verso di lui, con un improvviso movimento d’espansione e d’abbandono – i sentimenti puri e le anime vergini hanno di codeste arditezze innocenti – ed egli si tirò in là modestamente.
«Ma se tu m’avessi dato del lei non te l’avrei perdonato mai!»
«Perché?»
«Perché… perché… non lo so il perché.»
Tacquero entrambi, e sentivano che quel silenzio li dominava. Alberto era tutto intento a fumare, e l’Adele a pungersi le mani sul rosaio. Si udiva il fruscío della sua veste ad ogni movimento di lei.
«L’ultima volta che partisti pel collegio pioveva, ti rammenti ?»
«Sí, tu mi scrivesti per domandarmi come fossi arrivato.»
«Ti rammenti anche di codesto?»
«Ho ancora la lettera.»
«Davvero?» arrossí e volse il capo. «E Velleda che non ritorna!»
«Mi par di vederla laggiú.»
«Velleda!»
«Oh, siete ancora costà?» gridò Velleda da lontano.
«Parlavamo di te, sai!» esclamò Adele correndole incontro, e buttandole le braccia al collo le sussurrò qualcosa all’orecchio.
«Cattiva!» mormorò Velleda chinando il capo e facendosi rossa.
«Grulla!» borbottò il signor Bartolomeo quando lo seppe.
Alle undici tutti i lumi della villa erano, o sembravano, spenti. Alberto che stava alla finestra, come uno che abbia bisogno di mettersi in cuore tutta la serena bellezza di una notte estiva, credette di scorgere un fil di luce che trapelava fra le stecche della persiana di una finestra al pianterreno, di faccia alla sua. E si sporse in fuori per meglio vedere; ma la luce si fece all’improvviso piú viva, come pel dileguarsi di un’ombra frapposta, e si spense quasi subito.
V
Il domani, appena Alberto aprí la finestra e appoggiò i gomiti al davanzale, colla sua bella pipa di schiuma in bocca, udí chiamarsi per nome.
Volse gli occhi sotto il pergolato, e vide un fresco visetto e due begli occhi che gli sorridevano; la cuginetta stava cogliendo dei fiori da un arbusto alquanto piú alto di lei, e rizzavasi sulla punta dei piedi per far piegare i ramoscelli restii; le maniche del vestito le cadevano lungo le braccia un po’ troppo delicate, ma bianche come alabastro; il piú gaio raggio di sole indorava quelle braccia e quel viso gentile.
«Buon dí, cugino!»
«Buon dí, cuginetta!»
«Son le nove, sa?»
«Lo so.»
«E non si vergogna?»
«O che fa lei costà, cosí mattiniera?»
«Lo vede, faccio dei mazzolini.»
«Per chi?»
«Pel babbo.»
«E poi?»
«Per Velleda.»
«E poi?»
«E poi… per chi se li merita.»
Egli alzò il naso in aria, mandò un grosso buffo di fumo, e disse:
«È una bella giornata.»
«Sí» rispose la fanciulla asciutto asciutto.
Adele andava e veniva fra gli alberi, chinandosi ad ogni istante sulle aiuole con una vivacità infantile e graziosa che era tutta sua. Alberto la guardava in silenzio. Di tanto in tanto ella pure guardava lui, cercando di non farsi scorgere, con una tal cera dispettosetta.
«Ha dormito bene?» domandò finalmente.
«Benissimo, grazie.»
«E vuol dormire ancora?
«No… perché?»
«Vieni ad aiutarmi dunque!»
«Vengo subito, cuginetta.»
Vedendolo venire ella si diede un gran da fare per assortire i fiori, e il giovane sentí sfumare in un attimo la grande audacia con la quale le avea quasi chiesto un mazzolino.
«Il babbo è andato lassú, alla Sassosa, alla vigna.»
«Oh davvero?»
«Quest’anno avremo una famosa vendemmia!»
«Sí?»
«L’ha detto il fattore!»
«Lui può saperlo.»
«E il babbo è contento. Ti piace codesto fiore?» riprese poscia l’Adele saltando da un discorso ad un altro.
«Bellino! come si chiama?»
«Non rammento; è un nome forestiero.»
«Dev’esser un fior raro.»
Ella stava per rispondere, ma vide che il cugino guardava piú la mano che il fior raro, e arrossí.
«Che bella aiuola!» diss’egli per non farsi scorgere.
«Sai cosa c’era qui prima? la piazzetta dove noi si giocava a volano! Ti ricordi?»
«Com’è cambiato!»
«Anche tu sei cambiato!» rispose ella senza alzare gli occhi.
Ei rispose dopo un istante: «E anche tu!».
E sorrisero entrambi.
«Andiamo a svegliare Velleda, la pigra!» disse Adele tutta rossa in viso.
Le finestre del pianterreno non erano molto alte dal suolo, ma la povera fanciulla si rizzò invano sulla punta dei suoi piedini: «Bussa tu» disse ad Alberto. Egli picchiò due colpetti timidi.
«Chi è?» si udí rispondere da una voce la quale aveva tuttora alcunché d’addormentato e di voluttuoso.
«Sono i miei fiori, che vengono a darti il buon giorno, dormigliona!»
Le stecche della persiana si schiusero alquanto; i raggi del sole vi s’insinuarono con una certa avidità e si disegnarono in strisce luminose su di una bella figura bianca, sul braccio roseo che si appoggiava al davanzale, sui capelli color d’oro, leggermente ondati, che cadevano mollemente sull’accappatoio. Velleda accostò il viso alla persiana, e si videro luccicare i suoi begli occhi; ma scorgendo Alberto, si tirò indietro bruscamente, e chiuse del tutto, dicendo: «Vengo subito».
«Non lo vuoi?» domandò un po’ crucciata l’Adele ad Alberto che rimaneva cogli occhi fissi sulla persiana chiusa, senza accorgersi del mazzolino che gli dava la cugina
«Dunque me lo merito anch’io?» diss’egli sorridendo.
«Presuntuoso!»
Passando sotto la finestra del cugino, Adele alzò gli occhi e stette a guardarla.
«Vedi com’è bello quel