Giovanni Verga

Eros


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imbarazzo, e guardava qua e là, senza osare di fissare gli occhi su di lui. Certamente si erano detto abbastanza; ma il cugino, messo alle strette da quel silenzio eloquente, incominciò:

      «Come sei buona, Adele!»

      Ella spalancò i suoi occhioni, e domandò con graziosa ingenuità:

      «O perché?»

      «Perché hai accondisceso…»

      «Non me lo domandasti tu?…»

      «Sí… ma a quest’ora dormiresti… ed invece io…»

      L’Adele fece certo sorrisetto e rispose:

      «No, non aveva sonno… Non ho sonno da parecchie notti.»

      «Da quando?…»

      «Sa che è molto curioso, signor cugino!» gli diss’ella dopo un istante d’esitazione.

      Il cugino, senza aprir bocca, la guardò per la prima volta negli occhi coll’amore dell’uomo. Ella abbassò i suoi e non rise piú.

      «Sei ben sicuro che dorman tutti?» gli domandò poco dopo, rispondendo senza saperlo a quello sguardo.

      «Sí, da piú di un’ora non si vede un sol lume.»

      Ella ritirò bruscamente la sua mano. Successe un silenzio che le diede animo e la fece sorridere: «Ebbene» gli domandò «son qua, che cosa devi dirmi?»

      «Volevo… desideravo chiederti scusa.»

      «Di che?»

      «Sono stato cattivo…»

      Ella scosse il capo lentamente: «No».

      Alberto avrebbe preferito dei rimproveri, onde aver agio di menare il can per l’aia. Non seppe piú che dire, e rimase imbarazzato.

      «Senti l’usignolo?»

      «No, è il passero solitario.»

      «Che notte deliziosa!»

      Ella non rispose.

      «A che pensi?»

      «A nulla.»

      «Non ti senti felice?»

      «… Sí!»

      «Che ora è?» domandò la fanciulla dopo alcuni istanti, come se si svegliasse.

      «Sarà il tocco e mezzo…»

      «È tardi, sai!»

      «Vuoi andartene?»

      «Sí» e non si muoveva.

      «Perché hai detto che sei stato cattivo?» gli domandò sorridendo cheta cheta.

      «Perché… è inutile adesso che te lo dica… tu mi hai perdonato!»

      E pose un sospirone per punto.

      Ella si mise a guardar la luna, dicendole tante cose cogli occhi.

      Poscia vivamente, come trasalendo:

      «Addio! addio! È tardi, buona sera!»

      «Adele!…» esclamò Alberto mentre ella stava per chiudere la finestra. «Adele!» Ella si affacciò di nuovo, ma tutta tremante, quasi avesse udito tutt’altro accento nella voce di lui. Egli esitava. – Allora la fanciulla gli fissò in volto gli occhi lucenti. – Il giovane sentí tutti i pudichi ardimenti, tutte le avide reticenze che ci erano in quello sguardo di vergine, e disse: «Vi amo! ecco quello che volevo dirvi!».

      Adele divenne bianca udendo quella parola che aspettava da un’ora.

      «Perdonatemi» riprese Alberto turbato dal silenzio di lei. «Vi è dispiaciuto che ve l’abbia detto? Perdonatemi, Adele! Ma parlate, ditemi almeno una sola parola, per l’amor di Dio.»

      «Perché mi date del voi?…» mormorò la fanciulla con un fil di voce.

      «Ah! come sei buona, Adele! Sei buona quanto sei bella! Vedi, a darti del tu adesso sembrami una delizia! Tu non sapevi nulla! Non ti sei mai accorta di nulla! Ti amavo da lungo tempo, sai! Sin da quando ero in collegio; ma dacché ti son vicino ti amo come… non saprei dirtelo io stesso… Mentre ti parlo, ora, sembrami che il cuore stia per scapparmi dal petto… Vorrei…»

      La fanciulla lasciò cadergli fra le mani il ramoscello di vainiglia che s’era messo in seno. Alberto afferrò quelle manine, e gliele baciò con ardore.

      «Come sei bella!» esclamò guardandola con occhi innamorati. «Quanto ti amo!»

      Infatti ella era proprio bella in quel momento; l’amore irradiavasi come una specie d’aureola dal rossore che la copriva, dal suo sorriso incerto e pudico, dai suoi occhi chini. C’era tanta luce in quegli occhi, che allorché li fissò in volto ad Alberto parvegli che due stelle lo abbagliassero.

      Ei le parlava concitato, con quel primo irrompere dell’amore che avea vagato sino a quel giorno fra le nebulose dell’immaginazione. Le diceva di quel che sentivasi in cuore, di quel che avea fatto, degli anni passati in collegio, delle timide gioie, delle amarezze soffocate, della madre che avea perduta – come ella avea perduta la sua – di quella prima sera in cui s’era messo a sedere accanto a lei, di quel che aveva visto nella tremola luce delle stelle, irradiazione di mondi sconosciuti, di quel vago sentimento di un noi sparso per tutto il creato, di quelle aspirazioni eteree verso una parola senza voce umana, che s’erano concentrati in lei, e che gli inondavano il cuore, tutti in una volta, al semplice contatto della sua veste. Sí sentiva immensamente felice: era la prima volta che parlava d’amore, e che una fanciulla stava ad ascoltarlo. – Ella ascoltava avidamente, infatti; o piuttosto beveva l’amore vergine ed entusiasta del giovane nello scintillare dei suoi occhi, e nelle vibrazioni appassionate della sua voce. Le sue povere manine tremavano come foglie nelle mani di lui. «Mi ami?» le diss’egli con uno di quegli accenti che penetrano sino in fondo al cuore. Ella accennò di sí col capo due o tre volte, senza osar di guardarlo.

      «E non amerai altri che me?»

      La giovinetta lo fissò collo sguardo limpido e franco della vergine, e rispose con ingenua meraviglia:

      «Potresti amare un’altra, tu?»

      «No… no!…»

      «O dunque?»

      Ei rimase un istante pensieroso.

      «E m’amerai sempre cosí?»

      «Sempre, e insegnerò ai tuoi figli ad amarti cosí!» rispose la fanciulla con sublime candore.

      Alberto tacque, si fe’ scuro in viso, ed evitò di guardarla. Aveva sentito come una trafittura. La schietta rivelazione del casto istinto materno che rivelavasi negli occhi sereni e nell’ingenuo sorriso della vergine, sconvolgeva l’artificiosa poesia del suo cuore, lo faceva precipitare dagli astri fra i quali libravasi, e lo faceva pensare.

      «Cos’hai?» gli domandò Adele, che lo vide rannuvolato..

      «Ho che voglio essere amato da te, e non dai miei figli!» rispose sfogando come poteva il suo malumore. «Ho che amo te, e non… Ho che ti amo, perché ti amo… senza pensare ad altro… Amami cosí, Adele! Amiamoci per amarci… perché altrimenti… sai…»

      «Che cosa?»

      «Potremmo dubitare di noi medesimi… delle nostre intenzioni… potremmo dubitare del nostro amore…»

      Giusto quando Alberto stava per sciorinare tutta la sua teoria dell’amore puro, poetico e senza figliuoli, si udí tossire alla finestra di sopra, ch’era quella dello zio Bartolomeo. Adele scappò come una cerbiatta spaventata; Alberto si fece piccin piccino, e sgattaiolò rasente al muro. Ci volle una buona mezz’ora prima di decidersi a rientrare per la finestra, dopo essersi assicurato che non si udiva fiatare anima viva, e che la finestra dello zio era proprio chiusa. Però fu tormentato tutta la notte dal dubbio, combinato colla tosse dello zio, che quella tal persiana non fosse stata sempre socchiusa, come l’avea vista rientrando – e di vento non ne avea tirato una maledetta in tutta la sera. Il giorno dopo avrebbe voluto trovarsi cento miglia lontano piuttosto che comparire al cospetto del terribile zio.

      Verso le otto stava per svignarsela