Jarro

La principessa romanzo


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bene: già che debbo parlare, io parlerò, – disse Enrica, che si teneva immobile e rigida, mentre due lacrime artatamente provocate le rigavan le guancie. – Roberto Jannacone ha assassinato il conte di Squirace....

      Si alzò un grido d’indignazione e di orrore.

      Roberto, accasciato da quel tradimento infame, rimase come un uomo senza volontà, senza sentimenti, senza più che un sembiante di vita. Avrebbe tutto creduto possibile, fuorchè una tale scelleratezza.

      I servi del duca lo arrestarono.

      Egli lasciò fare: non oppose resistenza di sorta. Enrica lo vide allontanarsi, e un’espressione di trionfo illuminava la sua ammaliante fisonomia.

      Un dubbio la crucciava.

      Se Roberto parlasse del loro matrimonio, durante il processo? Se ella dovesse comparire in pubblico a giustificarsi?

      Ma Roberto era generosissimo; e poi egli era annientato, sbigottito dall’atto di lei, dal sangue freddo con cui ella lo avea compiuto.

      Il suo amore, la sua passione eran rimasti troncati in un attimo: essa non gl’ispirava più nè affetto, nè odio, nè disgusto, nè desiderio di rappresaglie: gli sembrava fosse morta la giovane da lui amata e che fosse sorto un mostro dalla sua spoglia. Sulle prime, non si rese conto della condizione in cui egli era piombato. Poi, a poco a poco, si svegliò in lui la coscienza della miseria, dell’abiezione, dell’immenso cordoglio a cui l’aveano spinto.

      Gli era stato tolto il suo grado. Chi e che era egli nel mondo e pel mondo? Un assassino, un omicida, che aspettava la sua condanna – e quale condanna? – dovea esser certo di morte.

      Non v’era caso che trionfasse la sua innocenza: gli pareva ben arduo.

      E il suo vecchio padre?

      Vi pensava, smaniando. Avea saputo che s’era presentato alle carceri, ma non gli era stato concesso di vederlo.

      Roberto entrava nella convinzione che la morte del conto di Squirace sarebbe stata vendicata col supplizio di due uomini: quello a cui i giudici l’avrebbero condannato e quello, tutto morale, che suo padre avrebbe risentito e che lo avrebbe, in breve, trascinato alla tomba.

      E tale mutamento di eventi si compieva un giorno dopo che Roberto era tornato dal suo viaggio, ben fornito di denaro, onusto di onori, e il vecchio avea pianto per l’allegrezza, ed era corso alla chiesa, pregando con quel cuore con cui pregano i padri pe’ loro figliuoli, e ringraziando la Provvidenza, in cui avea tanta fede, dell’altezza insperata alla quale il giovane era arrivato.

      Il pensiero del padre straziava Roberto.

      Ma il vecchio non s’era invece lasciato punto abbattere.

      Allorchè, con molta cautela, gli fu riferito da un frate, venerando per anni e per pietà, inviatogli dal duca, ciò che suo figlio avea fatto e gli furon palesate le conseguenze del suo delitto, il vecchio, sereno, si cavò la sua berretta, s’inginocchiò innanzi al sacerdote, dicendo con voce ferma:

      – Il Signore vuole provarmi in questa mia tarda età.... Che la sua volontà, la quale mi castiga così, sia ben accetta dal mio animo di cristiano!

      Poi, alzandosi, più fiero, disse, al frate:

      – Dite al duca che lo hanno ingannato.... È impossibile che mio figlio abbia commesso un tale delitto.... Siate sicuro, come sono io, che mio figlio è innocente.... Qui sotto c’è un tranello, che scuopriremo.... Tutti sono stati ingannati.... E che? mio figlio assassino?

      Il vecchio non seppe più contenersi e proruppe in singhiozzi, che avrebbero straziato i cuori men disposti alla pietà.

      Poi riprese tutta la sua gagliardia:

      – Sento, – disse al padre, – che la fede mi dà una gran forza… e in Dio attingo la convinzione che il mio povero figliuolo innocente è vittima di un agguato.

      Allo stesso frate, uomo dotto e pio, esperto; da tempo, in tutti i dolori, parve grandiosa questa figura di umile cristiano; e riferì tutto al duca.

      Nella voce, con cui il duca gli rispose, si sentiva il pianto. Si parlava molto del delitto, di cui era accusato Roberto. Alla indignazione verso di lui succedeva un sentimento di pietà, di simpatia. Questa simpatia gli era pur cattivata dal rispetto, dall’affezione universale di cui godeva suo padre.

      La domenica dopo il fatto accaduto nel parco, egli era andato alla chiesa: e verso lui si volgevano gli sguardi di tutti: tutti l’aveano veduto entrare eretto, sereno, ma tutti ne indovinavano il dolore.

      Al punto più solenne della messa, in mezzo al silenzio più profondo, si erano uditi i singhiozzi del vecchio, che, unendo la sua veemente preghiera alla preghiera del sacerdote, invocava dall’alto fosse chiarita l’innocenza del suo figliuolo.

      Si udirono poi altri singhiozzi, più sommessi; molte anime semplici si turbavano a quell’immenso dolore, che già aveano indovinato: partecipavano a quella grande preghiera.

      Anche il sacerdote avea gli occhi inumiditi di pianto: e portò a Dio, nella pienezza del sacrifizio che consumava, nel ricordo del santo martirio, fatto con parole divine, il dolore di quel padre, di quel cristiano. Dopo l’elevazione, Andrea Marrato, il più ricco contadino dei dintorni, e che si sapea, da diecine di anni, nemico acerrimo di Ciccillo Jannacone, corse ad abbracciarlo. Quindi i due vecchi rimasero inginocchiati l’uno accanto all’altro. La commozione era in tutti gli animi.

      Ma anche a Napoli tutti si occupavano dello strano, atroce delitto. La morte del conte di Squirace avea indignato e fatto inorridire l’aristocrazia napoletana.

      L’odio contro il presunto assassino era, nella popolazione, fomentato dall’alto.

      Però, nella stessa aristocrazia, alcuni, più spregiudicati, o più intelligenti, faceano osservare il delitto essere stato commesso in circostanze ben strane.

      Il duca, venuto in città, accendeva gli animi di tutti contro Roberto: Enrica aveva voluto restare nel castello.

      Sola, con Cristina, la sera stessa in cui Roberto era tratto in prigione per la denunzia di lei, essa se ne stava, tutta nuda, dinanzi al grande specchio della sua camera, vanagloriosa di contemplarsi.

      Le punte rosee del suo turgido seno si ergeano come due bottoni di fiori.

      Cristina, l’infernale Cristina, le si accostava sempre di più: le facea carezze, che si dava sembiante di farle con piglio materno.

      Enrica s’infatuava in quella corruzione e sorridea di piacere, mentre Roberto, nella, sua prigione, era dilaniato da tutti gli spasimi.

      Ed esclamava, a ragione, pensando a lei:

      – Donna crudele, infame, maledetta!

      Il processo di Roberto era aspettato a Napoli con acutissima ansietà.

      Si sapeva che Enrica avrebbe dovuto deporre come unica testimone.

      Rendea più trepidante l’aspettativa il sentimento che dalla deposizione di una ragazza dipendeva la vita di un infelice.

      Ciccillo Jannacone avea voluto lasciar subito il servizio del duca: e molti aveano fatto offerte al vecchio, ma egli se n’era tornato con un suo parente, e attendeva ne’ campi a’ suoi soliti lavori.

      Aveva un tacito risentimento contro la figlia del duca. Per lui, convinto dell’innocenza di Roberto, e cui niuna sentenza umana avrebbe potuto strappar tale convinzione, essa aveva mentito. Ma si torturava il cervello: passava le notti insonni, poichè tra sè ricercava: a quale scopo?

      Gli era venuta l’idea di trovar modo di parlare ad Enrica. E un giorno, poichè l’idea non lo lasciava, si recò nel parco.

      Enrica passeggiava e scherzava col principe di Gorreso, giovane ministro del Re di Napoli presso una Corte straniera, e che era il nuovo innamorato della duchessa.

      Si diceva, anzi, ch’egli avesse domandato già al duca la mano della figliuola.

      Al solo vedere il padre di Jannacone, Enrica svenne.

      Il vecchio fu scacciato dal parco come un malvivente. E, mentre lo scacciavano, Enrica si era fatta sentire da’ servi esclamare:

      – Il