Jarro

La principessa romanzo


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dunque, domandava di tanto in tanto notizie della bambina. L’astuta cameriera le rispondeva che la bambina prosperava: le parlava sempre delle ingentissime spese che occorrevano a mantenere il segreto: e poi la creatura era sì malaticcia.... la gente, che l’avea in cura, ingordissima.... Essa l’avrebbe adottata come le avea promesso: stesse tranquilla.

      Già Enrica era in vere angustie per procurarsi tutto il denaro che Cristina le domandava. Non poteva chiedere forti somme al duca senza eccitarne i sospetti. Cristina diveniva esigente, imperiosa.

      Ah, se Enrica avesse potuto sapere in quali mani si trovava davvero la sua bambina!

      Una sola persona era a parte del terribile segreto: Roberto Jannacone, poichè egli era l’uomo nascosto fra le rovine del casolare, allorchè vi erano andati a tenere il loro conciliabolo il marchese di Trapani e Marco Alboni.

      Ma a Roberto Jannacone mancava allora un punto: sapere chi fossero il padre e la madre della bambina, che i due bricconi aveano trafugato.

      FINE DELLA PARTE PRIMA

      PARTE SECONDA

      I

      In uno de’ più bei palazzi della via di Toledo abitava la principessa Enrica Gorreso di Caprenne.

      La figlia del duca di Mondrone avea sposato da circa undici anni il principe, che le facea la corte nel periodo di tempo in cui ella accusava Roberto e compariva dinanzi a’ giudici per deporre contro di lui.

      Il duca era morto da alcuni mesi, e la principessa non avea ancora dismesso il più stretto lutto.

      Nominata fra le elegantissime e bellissime dame di Napoli, essa era desiderata indarno ne’ ricevimenti più signorili, agli spettacoli, cui era assidua per lo innanzi, e ne’ quali la sua bellezza riceveva tante e sì ardenti ammirazioni, che a lei piacevano.

      Quella mattina, benchè appena fosser suonate le sette, la principessa era nel suo salotto e il principe con lei.

      Sedevano a un tavolino, coperto da uno sfarzoso tappeto della Cina, e sul quale erano, un po’ in disordine, i varii pezzi di un servizio da tè, in argento.

      Le fiammelle azzurre si alzavano sotto il gran vaso, nel quale il tè bolliva, gorgogliando.

      – Siete molto gentile, – disse la principessa al marito. – Non posso dirvi quanto vi sono riconoscente d’esser venuto così di buon’ora, a farmi una visita nel mio appartamento.... Mi sono levata stamani, prestissimo: e mi annoiavo.... Avevo leggiucchiato qualche libro (sulla tavola erano sparsi varii volumi): ma sapete che la lettura mi stanca presto....

      – Mi sembra che tutto vi stanchi, cara Enrica: tutto ciò che è veramente bello, che inalza l’animo e consola, o rallegra agli altri la vita.... Siete una donna molto originale.... Noi stiamo insieme da undici anni, o per dir meglio da undici anni siamo marito e moglie, perchè siamo stati ben poco insieme.... Ma ci fu in voi molto, che io non son riuscito mai ancora ad intendere: c’è una parte del vostro carattere, che per me rimane misteriosa.... In un punto voi siete infaticabile, nel soddisfar a’ vostri capricci....

      Il principe diceva ciò in tuono leggero, sorridente, e anche la principessa, guardandolo, sorrideva e gli mostrava i suoi denti nitidissimi.

      Il principe era un uomo gaio, simpatico, dissipatissimo, ma che avea, tra le dissipazioni, serbato fortissimo il coraggio, il sentimento dell’onore, la dirittura de’ criteri.

      Era egli stesso il primo a condannare in sè il genere di vita nel quale s’ingolfava: ma, pur troppo, ogni giorno, vi si sentiva più attirato.

      Nel suo matrimonio non avea trovato la felicità che egli cercava. Studioso, appassionato della letteratura, coltissimo nelle arti, non avea trovato nella moglie alcuna rispondenza a questi sentimenti. Enrica capiva ben poco di tutto: appena quanto si richiedeva a non parer grossolana: la tediava ogni conversazione, in cui si toccasse d’argomento artistico o letterario. Per quella donna bella e robusta non avea attrattive se non la vita prettamente sensuale.

      La bellezza di Enrica era ormai nel suo massimo vigore, senza ch’ella avesse perduto della sua freschezza. I giovani di Napoli, e anche i vecchi, accorrevano a uno spettacolo, a una festa sol per vedere le sue spalle, le sue braccia, il suo seno meraviglioso. Ella non era punto avara di mostrarsi: avea inventato, di concerto con il suo sarto parigino, una scollatura, che facea inorridire, tutte le donne: in ispecie le brutte. Alcune di quelle che più la biasimavano, aveano cercato imitarla, ma scopriva troppo i difetti: a usarla, senza eccitar il riso o la compassione, ci volevano le perfezioni scultorie della principessa.

      Il principe, al contrario, era snello, delicato.

      La principessa, come sa il lettore, era collerica, impetuosa, poichè in nulla tralignava dalla sua prima giovinezza; il principe, fine, ponderato anche ne’ suoi risentimenti.

      Come si fossero amati, poichè offrivano fra loro sì spiccato contrasto, non si sapeva: o troppo si sapeva dall’alta società napoletana, nella quale si buccinava che Enrica avesse sposato il Caprenne per vanità: e il principe, Enrica per rimpinguare il suo patrimonio, nel quale aveva fatto grandi breccie.

      Ma il principe, nell’ammogliarsi, era, ripetiamo, di buona fede. Le gioie della famiglia aveano per lui una vera attrattiva: vagheggiava, dopo tante dissolutezze, dopo tante rischiose avventure, tutte cause d’inquietudini, una vita tranquilla, volta a nobile scopo: per esempio all’affetto, all’educazione dei figli. Ma la principessa non gli avea dato figli: era stata sempre fredda con lui, salvo i suoi impeti di sensualità selvaggia: non gli avea reso possibile la vita intima: aveva empito la sua casa di rumore, di distrazioni, di frivolezze, sino allo stordimento. Intorno a Enrica, o nel palazzo in città, o nella villa nel parco di Mondrone, ove si recavano qualche volta, v’era sempre un che di vertiginoso. Il principe viveva assai più quieto, e lo pensava, allorchè era scapolo.

      Bisognava ch’egli trattasse Enrica com’una sovrana; il carattere impetuoso di lei non piegava: essa non concedeva nulla di sè, benevolenza, favori, se non domandati a ginocchio, con umiltà, quasi con umiliazione di schiavo.

      Il principe non comportava molto di buon animo il vivere in tal soggezione: ma avea una cortesia raffinata: amava Enrica: e ad irritarlo sarebbe occorso qualche serio oltraggio, la convinzione profonda che Enrica non rispettasse il nome di lui.

      Allora egli, sì elegante, indolente, affabilissimo, motteggiatore, sarebbe stato capace di tutto.

      Suo padre gli avea fatto fare studii per la diplomazia: e il principe era stato, per due anni, nella Ambasciata di Parigi, come segretario. Poi era tornato a Napoli: e l’Europa avea avuto un diplomatico di meno.

      A questo proposito, dobbiamo raccontar al lettore.... Ci si stia bene a udire.

      Enrica e il principe erano stati una notte ad una festa da ballo, alla Corte; sul far del mattino si trovavano insieme nel loro palazzo. Il principe avea accompagnato Enrica fin nella sua camera. Dalle finestre, le cui imposte eran socchiuse, entravano i primi albori: le candele ardevano sui candelabri d’argento. Un bel fuoco crepitava nel caminetto.

      La principessa, dinanzi al principe, si tolse il diadema di brillanti, la collana di perle, tutti i gioielli: poi l’abito da ballo, aiutata da due cameriere. Rimasta in semplice guarnelletto di trine, il petto, le braccia a dirittura scoperti, si gettò addosso una pelliccia, e quindi prese a braccetto il marito, dicendogli con tuono indescrivibile:

      – Stamani vi concedo ospitalità nelle mie stanze.... Passiamo nel salotto!…

      Lì pure scoppiettava un buon fuoco.

      Le cameriere erano state licenziate.

      – Avete cenato al ballo?…

      – No, cara, – rispose il principe. – Chi può mai accostarsi a una di quelle tavole? Si direbbe che la Corte inviti un’orda di affamati.... o di parassiti!

      – Neppur io ho cenato.... – disse la principessa, – ed ho fame.... V’invito a far con me una piccola colazione qui, accanto al fuoco.... La servirò io stessa.

      E la principessa andò a un armadio d’ebano, con borchiette d’argento, e ne cavò alcuni piccoli