Emilio Salgari

Alla conquista di un impero


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i grossi cordoni di seta della tenda, li legò insieme fortemente, provò la loro solidità, poi assicurò un capo al gancio d’una imposta e l’altro lo strinse sotto le ascelle del disgraziato ministro che conservava sempre una immobilità assoluta.

      – Pesa ben poco S. E., – disse Yanez, prendendoselo in braccio.

      Lo portò verso la finestra e afferrato strettamente il cordone si mise a calarlo.

      Dieci braccia furono pronte a prenderlo, appena ebbe toccato il suolo.

      – Aspettate me, ora, – disse Yanez a bassa voce.

      Spense la lampada, s’aggrappò alla corda ed in un attimo si trovò sulla via.

      – Tu sei un vero demonio, – gli disse Sandokan. – Non l’avrai ucciso, spero.

      – Domani starà bene quanto noi, – rispose Yanez, sorridendo.

      – Che cosa hai fatto bere a quest’uomo, che sembra morto?

      – Quest’uomo! Rispetta le Eccellenze, fratellino. È il primo ministro del rajah, mio caro.

      – Saccaroa! Tu fai sempre colpi grossi.

      – Andiamo e alla lesta, Sandokan. Può giungere la guardia notturna.

      Hai qualche veicolo?

      – Vi è un tciopaya fermo sull’angolo della via.

      – Raggiungiamolo senza perdere tempo. —

      Con un sibilo simile a quello che aveva lanciato poco prima Yanez, il pirata malese fece accorrere tutti i suoi uomini che vigilavano all’estremità della via e tutti insieme raggiunsero un gran carro, che aveva la cassa dipinta d’azzurro e che reggeva una specie di cupoletta formata di frasche sotto la quale stavano due materassi.

      Era uno di quei comodi veicoli che gl’indiani adoperano quando intraprendono qualche lungo viaggio e che sono chiamati tciopaya, dove, al riparo dal sole, possono mangiare, fumare e dormire, essendo la cassa divisa in due parti: una che serve da salotto e una da stanza da letto.

      Quattro paia di zebù, bianchissimi, colle gobbe cadenti ed i dorsi coperti da gualdrappe di stoffa rossa, erano aggiogati al massiccio ruotabile.

      Il ministro fu deposto su un materasso, Yanez e Sandokan vi si sedettero presso e, mentre i loro compagni, per non destare sospetti, si disperdevano, il carro si mise in moto, guidato da un malese vestito da indiano che teneva in mano una torcia per illuminare la via.

      – Subito a casa, – disse Sandokan al cocchiere.

      Poi, volgendosi verso Yanez che stava accendendo una sigaretta, gli chiese:

      – Parlerai ora? Io non riesco affatto a capire che razza d’idea ti è nata nel cervello.

      Credevo che ti ammazzassero davvero là dentro.

      – Un uomo bianco e mylord! Uhm! Non l’avrebbero mai osato, – rispose Yanez, aspirando lentamente il fumo e rigettandolo con altrettanta lentezza.

      – Hai giuocato però una partita che poteva costarti cara.

      – Bisogna ben divertirsi qualche volta.

      – Insomma che cosa vuoi fare di questa mummia?

      – È una Eccellenza, ti ho detto.

      – Che non farà mai una bella figura alla corte del rajah.

      – La farò invece io.

      – Vuoi dunque introdurti alla corte di quel sospettoso tiranno? Sono otto giorni che tutti continuano a ripeterci che non vuol vedere nessun europeo.

      – Ed io ti dico che mi riceverà e con grandi onori. Aspetta che io possa avere nelle mie mani la pietra di Salagraman ed il famoso capello di Visnù e vedrai come mi accoglierà.

      – Chi?

      – Il rajah, – rispose Yanez. – Credevi tu che io fossi venuto qui a guardare il bel paese della mia Surama, senza darle anche la corona?

      – Era ben questa la nostra idea, – disse Sandokan. – Non avrei lasciato il Borneo per fare delle passeggiate per le vie di Gauhati.

      Non riesco però a comprendere che cosa possa entrare il rapimento d’un ministro, il capello di Visnù e la pietra di Salagraman colla conquista d’un regno.

      – Sai tu, innanzi a tutto, fratellino, dove i sacerdoti tengono nascosta la conchiglia?

      – Io no.

      – E nemmeno io, quantunque abbia interrogati, in questi otto giorni, non so quanti indiani.

      – Chi ce l’indicherà dunque?

      – Il ministro, – rispose Yanez.

      Sandokan guardò il portoghese con vera ammirazione.

      – Ah! che diavolo d’uomo! – esclamò poi. – Tu saresti capace di giuocare Brahma, Siva e anche Visnù insieme.

      – Forse, – rispose Yanez, ridendo. – Troveremo però alla corte del rajah un ostacolo che sarà duro da abbattere.

      – Che cos’è?

      – Un uomo.

      – Se hai rapito un ministro, potrai fare scomparire anche quello.

      – Si dice che goda una grande influenza a corte e che sia lui che fa di tutto per impedire agli stranieri di razza bianca di metterci dentro i piedi.

      – Chi è?

      – Un europeo, mi hanno detto.

      – Qualche inglese.

      – Non ho potuto saperlo. Ce lo dirà il ministro. —

      Una brusca fermata che per poco non fece loro perdere l’equilibrio, interruppe la loro conversazione.

      – Siamo giunti, padrone, – disse il conduttore del carro.

      Dieci o dodici uomini, gli stessi che li avevano aiutati a rapire il ministro, erano usciti da una porta, schierandosi silenziosamente ai due lati del veicolo.

      – Vi ha seguìti nessuno? – chiese loro Sandokan, balzando a terra.

      – No, padrone – risposero ad una voce.

      – Nulla di nuovo nella pagoda?

      – Calma assoluta.

      – Prendete il ministro e portatelo nel sotterraneo di Quiscena. —

      Il carro si era fermato dinanzi ad una gigantesca roccia che s’appoggiava in parte al Brahmaputra e che s’alzava in una località deserta affatto, non essendovi intorno che delle antichissime muraglie semidiroccate, che un tempo dovevano aver servito di cinta alla città e ad ammassi colossali di macerie.

      Sulla fronte, al di sopra di una porta di bronzo, si scorgevano confusamente delle divinità indiane, di pietra nera, allineate su una specie di cornicione sorretto da una infinità di teste d’elefante, scavate nella roccia e che tenevano le proboscidi arrotolate.

      Doveva essere qualche pagoda sotterranea, come già ve ne sono tante nell’India, poiché in alto non si vedeva alcuna cupola né semi-circolare, né piramidale.

      Altri uomini erano usciti, portando delle torce ed unendosi ai primi. Pareva che tutte quelle persone, quantunque indossassero costumi assamesi, appartenessero a due razze ben distinte che nulla o ben poco avevano d’indiano.

      Infatti, mentre alcuni erano bassi e piuttosto tarchiati, colla pelle fosca che aveva dei riflessi olivastri con sfumature rossastro cupo e gli occhi piccoli e nerissimi, altri invece erano piuttosto alti, di colore giallastro, coi lineamenti bellissimi, quasi regolari e gli occhi grandi, bene aperti ed intelligentissimi.

      Un uomo che avesse avuto profonda conoscenza della regione malese, non avrebbe esitato a classificare i primi per malesi autentici e gli altri per dayachi bornesi, due razze che si equivalevano per ferocia, per audacia e per coraggio indomito.

      – Prendete quest’uomo, – aveva detto Yanez, scendendo dal carro e sporgendo il ministro sempre