Emilio Salgari

Alla conquista di un impero


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colazione. Suppongo che i viveri non mancheranno in questa vecchia pagoda.

      – Qui regna l’abbondanza, – rispose Yanez.

      – Vieni con me, allora. Kammamuri è un cuoco abilissimo. —

      Si presero a braccetto e uscirono insieme, lasciando soli il disgraziato ministro del rajah e Sandokan.

      Questi aveva riacceso il suo cibuc e, dopo essersi sdraiato, si era rimesso a fumare silenziosamente, spiando attentamente il prigioniero.

      Kaksa Pharaum si era lasciato cadere su una sedia, prendendosi il capo fra le mani. Pareva completamente annichilito da quel succedersi di avvenimenti imprevisti.

      I due personaggi stettero parecchi minuti silenziosi, l’uno continuando a fumare e l’altro a meditare sui tristi casi della vita, poi il pirata, staccando dalle labbra la pipa, disse:

      – Vuoi un consiglio, Eccellenza? —

      Kaksa Pharaum aveva alzata vivamente la testa, fissando i suoi piccoli occhi sul formidabile pirata.

      – Che cosa vuoi, sahib? – chiese, battendo i denti.

      – Devi dire, se vuoi evitare maggiori guai, quello che desidera sapere il mio amico.

      Bada, Eccellenza! È un uomo terribile, che non indietreggerà dinanzi a nessun mezzo feroce.

      Io sono la Tigre della Malesia: egli è la Tigre bianca.

      Quale sarà il più implacabile? Ah! Io non te lo saprei dire.

      – Ma ho già detto che io ignoro dove si trova la pietra di Salagraman.

      – Il sigaro che il mio amico ti ha fatto fumare ti ha annebbiato un po’ troppo il cervello, – rispose Sandokan. – È necessaria una buona colazione. Vedrai, Eccellenza, come la memoria diventerà limpida. —

      Tornò a rovesciarsi sul divano e si rimise a fumare con tutta calma.

      Un silenzio profondo regnava nel salotto. Si sarebbe detto che all’infuori di quei due personaggi nessuno abitava la vecchia pagoda sotterranea.

      Kaksa Pharaum, più che mai spaventato, era tornato ad accasciarsi sulla sua sedia, col capo fra le mani. La Tigre della Malesia non fiatava, anzi si studiava di non fare alcun rumore colle labbra.

      I suoi occhi però pieni di fuoco, non si staccavano un solo momento dal ministro. Si comprendeva che stava in guardia.

      Trascorse una mezz’ora, poi la porta tornò ad aprirsi ed un altro indiano entrò, tenendo fra le mani un piatto fumante che conteneva dei pesci annegati in una salsa nerastra.

      Era un uomo presso la quarantina, piuttosto alto di statura e membruto, tutto vestito di bianco, col viso molto abbronzato che aveva dei riflessi dell’ottone e che aveva agli orecchi dei pendenti d’oro che gli davano un non so che di grazioso e di strano.

      – Ah! – esclamò Sandokan, deponendo la pipa. – Sei tu, Kammamuri? Ben felice di vederti, sempre in salute e sempre fedele al tuo padrone.

      – I maharatti muoiono al servizio del loro signore, – rispose l’indiano. – Salute a te, invincibile Tigre della Malesia. —

      Altri quattro uomini erano entrati, portando altri tondi pieni di cibi diversi, bottiglie di birra e salviette.

      Kammamuri depose il suo tondo dinanzi al ministro, mentre entravano Yanez e Tremal-Naik.

      La Tigre della Malesia si era alzata per sedersi di fronte al prigioniero, il quale guardava con terrore or l’uno ed ora gli altri, senza però pronunciare una sillaba.

      – Perdonate, Eccellenza, se la colazione che io vi offro è ben inferiore alla cena che vi ho mangiata, ma siamo un po’ discosti dal centro della città ed i negozi non sono ancora aperti.

      Fate onore al nostro modesto pasto e rasserenatevi. Avete una cera da funerale.

      – Io non ho fame, mylord, – balbettò il disgraziato.

      – Mandate giù pochi bocconi per tenerci compagnia.

      – E se mi rifiutassi?

      – In tal caso vi costringerei colla forza. Non si fa l’offesa d’un rifiuto ad un mylord.

      La nostra cucina d’altronde non è meno buona della vostra: assaggiate e vi persuaderete. Poi riprenderemo il nostro discorso. —

      Come abbiamo detto, Kammamuri aveva posto dinanzi al ministro il primo tondo che aveva portato e che conteneva dei pesci che nuotavano entro una salsa nerastra, costringendolo in tal modo ad inghiottire solo quell’intingolo.

      Il povero diavolo, vedendo fisso sopra di sé e minacciosi gli occhi di Yanez, si decise finalmente a mangiare quantunque non avesse affatto appetito.

      Gli altri non avevano tardato ad imitarlo, vuotando rapidamente i piatti che avevano dinanzi e che non sembravano contenere un intingolo diverso, almeno apparentemente.

      Kaksa Pharaum aveva con grandi sforzi inghiottiti alcuni bocconi, quando lasciò cadere bruscamente la forchetta guardando il portoghese con smarrimento.

      – Che cosa avete, Eccellenza? – chiese Yanez, fingendo con gran stupore.

      – Che mi sento bruciare le viscere, – rispose Kaksa Pharaum che era diventato smorto.

      – Non mettete anche voi del pimento nei vostri intingoli?

      – Non così forte.

      – Continuate a mangiare.

      – No… datemi da bere… brucio.

      – Da bere? Che cosa?

      – Di quella birra, – rispose il disgraziato.

      – Ah no, Eccellenza. Questa è esclusivamente per noi e poi voi, come indiano, non potreste berne poiché noi inglesi, onde aumentare la fermentazione della birra, vi mettiamo qualche pezzetto di grasso di mucca.

      Voi, Eccellenza, sapete meglio di me che, per voi indiani, quell’animale è sacro e chi ne mangia andrà soggetto a pene tremende quando sarà morto. —

      Sandokan e Tremal-Naik fecero uno sforzo supremo per trattenere una clamorosa risata. Ne poteva inventare altre quel demonio di portoghese? Perfino il grasso di mucca nella birra inglese!

      Yanez, che conservava una serietà meravigliosa, empì una tazza di birra e la porse al ministro dicendogli:

      – Se volete, bevete pure. —

      Kaksa Pharaum aveva fatto un gesto d’orrore.

      – No… mai… un indiano… meglio la morte… dell’acqua mylord… dell’acqua! – aveva gridato. – Ho il fuoco nel ventre!

      – Dell’acqua! – rispose Yanez. – Dove volete che andiamo a prenderne, Eccellenza? Non vi è alcun pozzo in questa pagoda sotterranea ed il fiume è più lontano di quello che credete.

      – Muoio!

      – Bah! Noi non abbiamo alcun interesse a sopprimervi. Tutt’altro.

      – Mi avete avvelenato… ho dei carboni accesi nel petto! – urlò il disgraziato. – Dell’acqua! dell’acqua!

      – La volete proprio? —

      Kaksa Pharaum si era alzato, comprimendosi con le mani il ventre.

      Aveva la schiuma alle labbra e gli occhi gli uscivano dalle orbite.

      – Dell’acqua… miserabili! – urlava spaventosamente.

      La sua voce non aveva più nulla d’umano. Dalle labbra gli uscivano dei ruggiti che impressionavano perfino la Tigre della Malesia.

      Anche Yanez si era alzato di fronte al ministro.

      – Parlerai? – gli chiese freddamente.

      – No! – urlò il disgraziato.

      – E allora noi non ti daremo una goccia d’acqua.

      – Sono avvelenato.

      – Ti dico di no.

      – Datemi