Emilio Salgari

Alla conquista di un impero


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aveva allungate le mani per afferrarle, ma Yanez fu pronto a fermarlo.

      – Quando mi avrai detto dove si trova la pietra di Salagraman tu potrai bere finché vorrai, – gli disse. – Ti avverto però che tu rimarrai in nostra mano finché l’avremo trovata, quindi sarebbe inutile ingannarci.

      – Brucio tutto! Una goccia d’acqua, una sola…

      – Dimmi dove è la pietra.

      – Non lo so…

      – Lo sai, – rispose l’implacabile portoghese.

      – Uccidetemi allora.

      – No.

      – Siete dei miserabili!

      – Se lo fossimo, non saresti più vivo.

      – Non posso più resistere! —

      Yanez prese un bicchiere e lo empì lentamente d’acqua.

      Kaksa Pharaum seguiva, cogli occhi smarriti, quel filo d’acqua, ruggendo come una fiera.

      – Parlerai? – chiese Yanez, quand’ebbe finito.

      – Sì… sì… – rantolò il ministro. – Dov’è dunque?

      – Nella pagoda di Karia.

      – Lo sapevamo anche noi. Dove?

      – Nel sotterraneo che s’apre sotto la statua di Siva.

      – Avanti.

      – Vi è una pietra… un anello di bronzo… alzatela… sotto in un cofano…

      – Giura su Siva che hai detto la verità.

      – Lo… giuro… da bere…

      – Un momento ancora. Veglia qualcuno nel sotterraneo?

      – Due guardie.

      – A te. —

      Invece di prendere il bicchiere il ministro afferrò una delle due bottiglie e si mise a bere a garganella, come se non dovesse finire più.

      La vuotò più che mezza, poi la lasciò bruscamente cadere e stramazzò, come fulminato, fra le braccia di Kammamuri che gli si era messo dietro.

      – Coricalo sul divano, – gli disse Yanez. – Per Giove, che droga infernale hai messo dentro quell’intingolo? Mi assicuri che non morrà, è vero?

      – Non temete, signor Yanez, – rispose il maharatto. – Non ho messo che una foglia di serhar, una pianta che cresce nel mio paese.

      Domani quest’uomo starà benissimo.

      – Tu lo sorveglierai e metterai due dei nostri alla porta. Se fugge siamo tutti perduti.

      – E noi dunque che cosa faremo? – chiese Sandokan.

      – Aspetteremo questa sera e andremo ad impadronirci della famosa pietra di Salagraman e del non meno famoso capello di Visnù.

      – Ma perché ci tieni tanto ad avere quella conchiglia?

      – Lo saprai più tardi, fratellino. Fidati di me. —

      4. La pietra di Salagraman

      Dodici o quattordici ore dopo la confessione del primo ministro del rajah dell’Assam, un drappello bene armato lasciava la pagoda sotterranea, avanzandosi con profondo silenzio lungo la riva sinistra del Brahmaputra.

      Era composto di Yanez, Sandokan, Tremal-Naik e di dieci uomini, per la maggior parte malesi e dayachi che, oltre le carabine e quei terribili pugnali colla lama serpeggiante chiamati kriss, portavano delle funi arrotolate intorno ai fianchi, delle torce e dei picconi.

      Essendo il sole tramontato già da quattro o cinque ore, nessun essere vivente passeggiava sotto i pipal, i fichi baniani e le palme, che coprivano la riva del fiume, proiettando una fitta ombra.

      Il drappello, dopo aver percorso qualche miglio senza aver scambiata una parola, si era arrestato di fronte ad un’isoletta che sorgeva quasi in mezzo al fiume, all’altezza dell’estremità orientale del popoloso sobborgo di Siringar.

      – Alt! – aveva comandato Yanez. – Bindar non deve essere lontano.

      – È l’indiano che tu hai assoldato? – chiese Sandokan. – Potremo fidarci di lui?

      – Surama mi ha detto che è il figlio d’uno dei servi di suo padre e che perciò non dobbiamo dubitare della sua lealtà.

      – Uhm! – fece la Tigre crollando il capo. – Io non mi fido che dei miei malesi e dei miei dayachi.

      – Lui conosce la pagoda anche internamente, mentre noi non l’abbiamo veduta che all’esterno. Una guida ci era necessaria. —

      S’accostò ad una enorme macchia di bambù alti per lo meno quindici metri, che curvavano le loro cime sopra le acque del fiume, e mandò un debole fischio, ripetendolo poi tre volte ad intervalli diversi.

      Non erano trascorsi dieci secondi quando fra quelle immense canne si udirono dei leggeri fruscii, poi un uomo sorse bruscamente dinanzi al portoghese, dicendogli:

      – Eccomi, sahib. —

      Era un giovane indiano di forse vent’anni, bene sviluppato, dall’aria intelligentissima ed i lineamenti piuttosto fini delle caste guerriere. Non aveva indosso che un semplice gonnellino un po’ lungo, il languti degli indù, stretto da una piccola fascia di cotone azzurro, entro cui era passato un pugnale dalla lama larghissima, in forma quasi d’un ferro di lancia ed il corpo aveva interamente spalmato di cenere, probabilmente raccolta sul luogo dove si ardono i cadaveri, e che è il distintivo poco attraente dei seguaci di Siva.

      – Hai condotto la bangle? – chiese Yanez.

      – Sì, padrone, – rispose l’indiano. – È nascosta sotto i bambù.

      – Sei solo?

      – Tu non mi avevi detto, sahib, di condurre altri. Avrei avuto più piacere, perché la bangle è pesante a guidarsi.

      – I miei uomini sono gente di mare. Imbarchiamoci subito.

      – Devo avvertirti d’una cosa però.

      – Parla e sii breve.

      – So che questa notte dinanzi alla pagoda devono bruciare il cadavere d’un bramino.

      – Durerà molto la cerimonia?

      – Non credo.

      – Il nostro arrivo non desterà qualche sospetto?

      – E perché sahib? Le barche approdano sovente all’isolotto, – disse l’indiano.

      – Andiamo allora.

      – Avrei però desiderato meglio che nessuno ci vedesse a sbarcare, – disse Sandokan.

      – Rimarremo a bordo, finché tutti si saranno allontanati, – rispose Yanez. – Non faranno troppa attenzione a noi. —

      Seguirono il giovane indiano, aprendosi faticosamente il passo fra quelle durissime canne giganti, che alla base avevano la circonferenza d’una coscia di fanciullo, e giunsero sulla riva del fiume.

      Sotto le ultime canne che, curvandosi verso l’acqua, formavano delle superbe arcate, stava nascosto uno di quei pesanti battelli, che gl’indiani adoperano sui loro fiumi per trasportare il riso, privo però degli alberi, ma provvisto invece d’una tettoia di stoppie destinata a riparare l’equipaggio dalle ingiurie del tempo.

      Yanez ed i suoi compagni s’imbarcarono; i malesi ed i dayachi afferrarono i lunghi remi e la bangle lasciò il nascondiglio dirigendosi verso l’isolotto, nel cui mezzo giganteggiava fra le tenebre una enorme costruzione in forma di piramide tronca.

      L’indiano aveva detto il vero annunciando un funerale. La massiccia barca non aveva percorsa ancora mezza distanza, quando sulla riva dell’isolotto si videro comparire numerose torce e raggrupparsi intorno ad una minuscola cala che doveva servire d’approdo alle barche del fiume.

      – Ecco dei guasta